Paulo ha gli occhi lucidi, gli occhi gonfi, ha gli occhi che abbiamo tutti noi. Trova la forza di alzare la testa, guarda Nemanja, il suo compagno, la persona con cui ha legato di più e che considera un punto di riferimento. Nemanja vede disperazione e supplica in quegli occhi, vede il bisogno di una risposta. Perché? Perché non è semplicemente un lieto fine? Nemanja sorride quasi, allarga le spalle, lo guarda come un padre guarda suo figlio e in sottofondo è come se partisse Father and Son di Cat Stevens: “That’s Football“, gli dice. È il football, ragazzi, è tutto qui. Sembra di sentire Ted Lasso.
Io l’avevo sentito Ted Lasso. L’avevo sentito perché prima della partita, di questa maledetta, benedetta finale, per smorzare la tensione o più semplicemente per non pensarci avevo visto l’ultimo episodio di Ted Lasso. E avevo capito. Avevo capito che era il momento di essere Nemanja Matic. Perché il calcio è così e bisogna avere la forza di comprenderlo. Quando lo capisci puoi essere un po’ più Ted, un po’ più leggero e felice di tutto quello che lo sport ti dà e che ti toglie.
Ero già preparato a quel momento perché Ted Lasso mi aveva preparato.
Mentre guardavo Lorenzo, Paulo, Bryan devastati e noi distrutti con loro, pensavo che però c’era qualcosa di bellissimo, qualcosa di unico in quel dolore condiviso. E mi sono tornate in mente le parole di Dino Viola: “La Roma non ha mai pianto e mai piangerà perché piange il debole, il forte non piange mai“. Proprio in quell’istante José stava facendo il discorso di un padre ai suoi figli:
Per me rimanete i miei ragazzi anche dopo questa partita, che abbiamo perso. Il calcio è calcio. E gli uomini sono uomini. Voi siete tutti uomini. Adesso andiamo.
E vedendolo là, senza sapere ancora chiaramente cosa dicesse ho ripensato al discorso di Ted Lasso ai suoi di ragazzi. E d’improvviso le labbra di Mou, che si muovevano, si sono confuse e fuse con quelle di Ted e l’ho sentito dire: “Sono orgoglioso di far parte di questa squadra, ragazzi, e vi voglio bene“, mentre scorrevano i volti di Dani Rojas, Sam Obisanya, Isaac McAdoo, Jamie Tartt e di tutti gli altri.
C’è il tempo per la tristezza ma c’è stato anche il tempo della gioia. Il momento in cui Gianluca riconquista con prepotenza il pallone con un anticipo netto e imbuca in area, come un anno prima, come in quel lancio che allora significò coppa. Paulo la controlla perfettamente ed è solo, come Obisanya nei minuti finali di Richmond – West Ham.
Tiro in diagonale. Gol. Il Richmond l’ha ribaltata. La Roma è in vantaggio.
Per un attimo il destino sembrava puntare dritto in una direzione, anche quando il pallone impattava violento sul palo e passava dietro la schiena di Rui non toccandolo ed evitando ancora il pari. Il fortino resisteva, nonostante un tempo di recupero assurdo, nonostante una pressione che si faceva violenta e a tratti all’apparenza irresistibile. È finito il primo tempo e per un attimo ti sorprendi a sognare di feste in piazza, di abbracci a sconosciuti, di gioia totale contro tutto e contro tutti. Contro i gufi, le malelingue, gli amici dei potenti. Contro quegli opinionisti che in Ted Lasso ci appaiono tronfi e di parte, faziosi e imbarazzanti.
Poi però quei festeggiamenti con i tifosi del Richmond che invadono il campo, con la gioia incontenibile di tutti i giocatori e della proprietà svaniscono. C’è una dissolvenza verso il nero in Ted Lasso, che per qualche secondo ci lascia così, senza sapere come sia andata a finire. Perché in fondo sappiamo cosa accade, ma noi vogliamo rimanere lì, cristallizzati in quella gioia, illusi nella bellezza del lieto fine.
E poi però, purtroppo e per fortuna, nella realtà e in Ted Lasso, torna la luce.
Il Siviglia ha pareggiato e la sorte adesso sembra ribaltarsi. Viene assegnato un rigore a loro, sembra la fine. Ripenso al rigore calciato da McAdoo, all’intervento del VAR e il dio del calcio sembra ascoltarmi. Taylor lo va a rivedere. Non è rigore. Siamo ancora vivi. Il destino però ora sembra andare in una sola direzione tra parate d’istinto, traverse e svirgolate. Torna il buio mentre Roger calcia il rigore e quel pallone non entra. Siamo lì in attesa del miracolo, del deus ex machina che ci dica che no, il pallone è entrato, ha bucato la rete e non se n’è accorto nessuno. Ma non è così. Non è così neanche in Ted Lasso dove la gioia è strozzata, castrata, sfumata. Il Manchester City ha vinto il campionato.
Ted Lasso lascia il Richmond pronto a tornare a casa. E noi rimaniamo lì temendo che anche José faccia lo stesso, che finisca tutto qui con un “Mi mancherete“. Ma José ripete, ossessivo, innamorato, disperato e paterno “Io voglio continuare qua, per voi“. E poi aggiunge: “Non abbiamo perso“.
Una follia, roba da risatine, per chiunque non capisca il romanismo. Non per noi.
Non per quei tifosi che come padri si coccolano in un abbraccio i loro figli, Gianluca, Paulo, Lorenzo, mentre sento risuonare ancora Father and Son. Altre risatine: li hanno fatti perdere e se li abbracciano? Sì, il romanismo. Hanno tutti gli occhi lucidi ma non piangono. Hanno il volto di Nemanja Matic e di Ted Lasso quando ripetono dolci, paterni e ostinati: “A testa alta, Lorenzo, a testa alta, Paulo! Siamo romanisti“. That’s Football. È il football, è tutto qui. “Andiamocene sapendo di aver fatto del nostro meglio“, aveva ricordato negli spogliatoi Ted Lasso. La Roma ha dato tutto, ha sudato la maglia, come amiamo ripetere, e questo è tutto ciò che conta. “Non vogliamo conoscere il futuro, vogliamo essere qui adesso“, ci ricorda ancora Ted Lasso e noi quelle parole ce le tatuiamo a pelle.
That’s Football. Poi c’è anche altro. C’è la rabbia dei padri che vedono i propri figli feriti, che sbagliano a indirizzare quella rabbia, anche se il Coach Beard ci consola e perdona: “La perfezione fa schifo, la perfezione è noiosa“. Non siamo perfetti, non lo siamo mai stati. Non siamo migliori, siamo umani. Sono stato umano anch’io, per rabbia, nel mio essere romanista.
Non ho scelto subito di esserlo, romanista. È nato tutto da un’ingiustizia, da un ragazzino prepotente che tormentava gli altri, quelli che riteneva “inferiori”. È nato da una piccola reazione a quegli atteggiamenti, la scelta di essere romanista. Non la mia, quella di mio padre, che nella vita ha sempre voluto essere Ettore più che Achille e che ha reagito alle angherie di quel ragazzino prepotente scegliendo di essere diverso, di essere romanista. Io l’ho ereditata questa fede ma come ogni fede, per essere tale, l’ho dovuta confermare. L’ho fatto accettando anch’io di essere Ettore, di essere spesso lo sconfitto. Soffrendo, difendendo la Roma da solo contro tutti, subendo con gli altri le ingiustizie ma mai accettandole. L’ho fatto anche sbagliando. Ero giovane e arrabbiato. Col tempo ho imparato a essere migliore, ho imparato a essere Nemaja Matic e Ted Lasso.
E come Nemanja Matic e Ted Lasso siamo lì a cantare il nostro amore ostinato e contrario, il Forza Roma alè di chi sceglie ogni giorno di essere Ettore, uomo, padre e marito, piuttosto che l’eroe irato Achille. E questo sì, è calcio. That’s Football.
Ted Lasso torna ai suoi affetti, torna a casa. Noi, invece, siamo già a casa. Apriamo gli occhi, alziamo la testa, gli occhi smettono di essere umidi. È il giorno dopo, un mio alunno ha una sciarpa della Roma legata alla vita, un altro indossa orgoglioso la maglia di Dybala. Mi guardano e come padri e maestri sembrano dire, sereni: ‘È il calcio‘. Guardiamo Paulo, guardiamo i nostri figli, fratelli, amici, compagni e gli sussurriamo l’insegnamento più importante che abbiamo imparato in decenni di romanismo, in sconfitte ai rigori, in finali di coppe dei campioni, in gioie e dolori: ‘Questo è il calcio‘, ed è bellissimo viverlo così. Anche e soprattutto quando non si vince. Nemanja Matic e Ted Lasso ce l’hanno insegnato.
Grazie Ted Lasso, Grazie Roma.
Forza Roma alè.