ATTENZIONE: questo articolo potrebbe contenere spoiler su The Americans.
The Americans è una di quelle serie tv che passano spesso inosservate, soprattutto in Italia. Ha avuto un grande successo di critica ed è stata apprezzata a lungo dal pubblico statunitense e da quello internazionale, ma il consumatore medio di serie tv difficilmente la annovera tra i migliori prodotti televisivi degli ultimi vent’anni. Nel 2013, al suo debutto, l’American Film Institute la inserì tra i primi 10 show dell’anno, traguardo replicato anche l’anno successivo e quello dopo. Nel 2019 si è aggiudicata un Golden Globe come miglior serie drammatica, battendo una concorrenza davvero spietata, e negli anni è riuscita a conquistare diversi Emmy: a Margo Martindale nel 2015 e nel 2016 come miglior attrice guest star, a Matthew Rhys come miglior attore protagonista nel 2018 e all’episodio START – l’ultimo della serie – per la miglior sceneggiatura, sempre nel 2018. Riconoscimenti meritatissimi, che però non restituiscono appieno la meraviglia di questo show, che è indubbiamente uno dei migliori dell’ultimo decennio.
The Americans è un gioiellino nascosto che va assolutamente recuperato.
Su Netflix è stato presente fino a qualche anno fa con le prime cinque stagioni, cancellate poi dal catalogo un po’ alla volta. Su Amazon Prime Video è ancora disponibile, ma è uno dei contenuti in scadenza: a fine agosto sparirà anche da questa piattaforma. Potremo però ancora vederlo su Chili e su Disney+, al momento non ci giungono notizie di eventuali rimozioni dai rispettivi cataloghi. Ma la domanda che qui ha senso porci è perché guardare The Americans? Perché affannarsi a recuperare uno show al quale le piattaforme più frequentate sembrano concedere poco? Il prodotto di Joe Weisberg, che prima di sbarcare nel mondo della televisione era un agente della CIA, ci sottopone una spy story adrenalinica ed esplosiva, un racconto dai mille risvolti in cui si alternano sequenze d’azione a passaggi più profondi, più emotivi. Ma non è solo sulle frequenze ad alta tensione dello spionaggio che è sintonizzata The Americans. Questa serie spalma lungo tutte le sue sei stagioni un’infinità di tematiche ben sviscerate e sottoposte al pubblico in maniera sottile, penetrante. La realtà non si riduce a una manicheistica contrapposizione tra bene e male, ma assume ogni volta una forma diversa, si intinge delle più varie sfumature, mette il naso nella complessità dei sentimenti umani, dei rapporti familiari, delle relazioni internazionali, dei valori morali.
Iniziare a guardare The Americans potrebbe essere un’ottima idea, per vari motivi. Con questo articolo, proveremo a spiegarvene dieci.
1) L’alchimia tra i protagonisti
Innanzitutto per Elizabeth e Philip Jennings, i protagonisti principali dello show, che sono interpretati rispettivamente da Keri Russell e Matthew Rhys. L’uno esiste solo in funzione dell’altro. Non solo come spie del KGB, ma anche come genitori, come coniugi, come amici. La chimica che c’è tra i due personaggi principali è uno dei più solidi punti di forza della serie. Elizabeth e Philip condividono un passato molto simile, scelte di vita coraggiose, grandi ideali da proteggere. Ma la sfera emotiva nella quale le loro frustrazioni trovano posto assume ogni volta contorni diversi. Elizabeth agisce d’istinto, tende a reprimere i sentimenti, a tacitare i dubbi, devota più di tutti alla causa. Philip è invece più meditativo, più incline ad incamerare sensazioni contrastanti e a dar loro un nome, un volto. Il percorso dei due protagonisti lungo tutto l’arco delle sei stagioni conosce deviazioni, sterzate, lunghe corse in solitaria. Ma è la loro alchimia di coppia a funzionare e a rendere speciale The Americans. Matthew Rhys e Keri Russell – che proprio grazie alla serie sono diventati una coppia anche nella vita reale – hanno saputo interpretare meravigliosamente due personaggi avvezzi alla finzione, alle bugie, all’inganno. La doppiezza è uno dei temi centrali di The Americans e restituirla allo schermo in maniera così autentica poteva sembrare impossibile, un controsenso semantico, e invece è esattamente ciò che loro hanno fatto. I Jennings sono due personaggi complessi e spinosi, in loro non c’è nulla di banale, ordinario o noioso. Presi e considerati separatamente sono due soggetti interessanti per una qualsiasi sceneggiatura. Ma è insieme che sono riusciti a fare di The Americans una delle serie tv più belle dell’ultimo decennio. La loro complicità li ha resi tra le coppie di protagonisti più affascinanti in assoluto nel mondo della televisione.
2) Il periodo storico
E chiaramente non si può parlare di The Americans senza apprezzarne l’ambientazione storica. Questa serie è un period drama ambientato nel cuore degli anni Ottanta, l’epoca della Guerra fredda e del bipolarismo. Il background storico diventa qui centrale, in alcuni passaggi monopolizza addirittura la scena. I costumi e le ambientazioni, i continui riferimenti agli eventi di quegli anni, le cabine telefoniche e le automobili, le grandi innovazioni tecnologiche, la colonna sonora e i più insignificanti dettagli restituiscono perfettamente il clima dell’ultimo decennio di Guerra fredda, caratterizzato da un riacuirsi delle tensioni e dall’avvento di Gorbačëv alla guida dell’Unione sovietica. Gli eventi narrati, sebbene raccontati attraverso il filtro della fiction, sono reali. Non solo quelli che percepiamo sullo sfondo, ma anche la storia della famiglia Jennings, che è ispirata alla storia vera di Donald Heathfield e Tracy Foley, una coppia di spie del KGB che ha vissuto per vent’anni come una normalissima famiglia americana negli Stati Uniti. Il fascino dell’ambientazione storica rivive anche nella scelta delle musiche e della colonna sonora, un altro dei grandi e impareggiabili pregi di The Americans.
3) Il ricorso ai plot twist
Altro punto di forza della serie è il ritmo della narrazione. Sostenuto, adrenalinico, da spy story. I colpi di scena non sono una novità in prodotti di questo tipo e The Americans non fa eccezione. Il ricorso ai plot twist è costante, ma quasi mai scontato. Può essere silenzioso e discreto: non vuole sbalordire per il gusto di sbalordire, ma scandire le tappe di un tipo di racconto – quello del thriller di spionaggio – che solitamente sviluppa quasi una sorta di assuefazione al colpo di scena. Le trame internazionali di quegli anni erano particolarmente avvezze a stravolgimenti improvvisi ed epiloghi inattesi.
Una spy story come The Americans si nutre di plot twist e dai plot twist viene forgiata.
Il ritmo è dettato dai repentini cambi di programma, dalle rivelazioni impreviste, dalle complicazioni accidentali. Non è una vita tranquilla, quella di una spia sovietica. Specie se il suo vicino di casa è un agente dell’FBI. Joe Weisberg ha saputo tenere gli spettatori incollati allo schermo, col fiato sospeso fino all’ultima tappa. L’uso del plot twist in The Americans non sfocia mai nell’abuso, cosa che succede sempre più spesso in tante serie tv, ma è invece uno strumento per tenere sempre alta la tensione e per dare la percezione di quella che era negli anni Ottanta la vita eccitante e tachicardica della guerre delle spie.
4) La complessità morale
Una buona serie tv si giudica anche dalla qualità delle domande che suggerisce in chi la guarda. Domande complesse, aggrovigliate attorno a giudizi morali e riflessioni articolate. Domande che non si prestano a risposte univoche, rudimentali. La complessità morale di un prodotto come questo apre tutta una serie di riflessioni etiche applicabili a macrosistemi e a sistemi più piccoli, alla contrapposizione tra due superpotenze mondiali così come al minuscolo nucleo familiare nel quale si consumano le ordinarie esistenze delle persone qualunque. È giusto uccidere persone innocenti per proteggere il proprio Paese? È opportuno anteporre il lavoro alla famiglia? Fino a che punto si può mentire a un figlio? E a se stessi?
The Americans nasconde interrogativi di questo tipo lungo tutto il suo percorso.
La Guerra fredda, come tutte le guerre, si trascina avanti tra mille contraddizioni. Gli eventi rimbalzano da una coscienza all’altra, lasciando qua e là degli strascichi. Non esiste mai una risposta facile, una soluzione semplice. Perdersi tra gli episodi di The Americans è un po’ come perdersi tra le infinite stratificazioni della propria coscienza.
5) Il climax ascendente e i continui cliffhanger che accrescono la tensione
Oltre ai plot twist sapientemente dosati lungo tutte le sei stagioni, a scandire il ritmo della narrazione sono anche i cliffhanger sparsi qua e là tra un episodio e l’altro. Un espediente narrativo che costringe lo spettatore a restare incollato allo schermo e che serve al regista per mantenere alta la tensione fino all’ultimo episodio. Il climax in The Americans è ascendente, il pathos cresce di più man mano che ci si avvicina alla fine. I primi episodi di ogni stagione, come per la maggior parte delle serie tv, sono quelli più piatti e meno movimentati. Ma a guardare nel complesso l’intero show, si percepisce un graduale aumento di tensione dal primo all’ultimo episodio. La missione dei Jennings si complica man mano che si va avanti con le stagioni: da due spie ordinarie scaraventate nel marasma degli anni Ottanta, i due coniugi diventeranno pedine sempre più importanti nel gioco internazionale della Guerra fredda. La narrazione degli eventi seguirà questo percorso, da una situazione di relativa calma fino all’exploit dell’ultimo episodio.
6) Ha uno dei finali più belli in assoluto
E veniamo proprio all’ultimo capitolo della serie. Dell’episodio START vi abbiamo già parlato in questo articolo. L’ultima puntata della sesta stagione è tra i finali di serie più belli che siano mai stati scritti. Tutto finisce dove tutto inizia. Tutto inizia dove tutto finisce. START potrebbe essere considerato un lieto fine se non fosse così dannatamente drammatico. Dentro vi è condensata tutta la complessità morale di cui abbiamo appena parlato. Dentro vi trovano spazio ulteriori domande invece che risposte. La tensione narrativa raggiunge il suo apice. Ci sono un paio di colpi di scena che ci lasciano senza fiato, raggelati e pietrificati. Gli attori danno prova di tutto il proprio talento regalandoci una tra le loro migliori interpretazioni di sempre. START non è un epilogo chiuso, finito, nel quale tutto trova soluzione. Al contrario, è un finale aperto, che lascia socchiusa la porta sul futuro, che lascia intravedere gli allucinanti dubbi prendere forma sui volti dei Jennings, tornati al punto di partenza. Che in realtà è punto di approdo da cui ripartire ancora una volta. Fosse anche solo il finale l’unica ragione per iniziare a guardare The Americans, ne varrebbe comunque la pena.
7) Non divide il mondo in buoni e cattivi
Quando si parla di complessità morale, possiamo buttarci dentro anche il concetto di bene e male, di buono e cattivo. Chi è davvero buono? Chi il cattivo? Esistono bene e male in guerra, qualcuno per cui prendere posizione a discapito di un altro? Molte serie tv sanno mostrarci quanto il confine tra bene e male sia in realtà estremamente labile. The Americans sa farlo in maniera ancora più penetrante. In questa serie è tutto molto confuso: la doppiezza mescola costantemente le carte in tavola, fino al punto da perdere la percezione di quali siano i confini dell’una o dell’altra categoria. Bene e male appartengono a delle classificazioni che servono a noi osservatori per inscatolare la realtà in spazi limitati, esplorabili fino in fondo. Ma la verità è che categorie e classificazioni non hanno nessuna rispondenza nella realtà. Il mondo è intricato, multiforme e contorto: ognuno si porta dietro il proprio carico di buone e cattive azioni. In The Americans non esiste un villain come non esistono degli eroi. Esistono pedine, che però sono esseri umani mossi da sentimenti contrastanti e sensibilità diverse. Negli anni Ottanta negli Stati Uniti le spie sovietiche erano considerate i cattivi, mentre gli agenti dell’FBI e i vertici dell’intelligence americana i buoni. In Unione sovietica era esattamente il contrario. Il bipolarismo, con i suoi steccati innalzati per dividere il mondo in due, sembrava una cosa facile da capire e da interpretare. Invece sappiamo benissimo quante contraddizioni tutto quel caos si sia portato dietro. The Americans da questo punto di vista mostra il bene e il male come parte dello stesso intricato amalgama. E lo fa rendendo interessante il percorso di ogni suo personaggio.
8) The Americans è anche incontro/scontro tra generazioni
Un altro punto di forza di questa serie è il confronto tra generazioni. I contrasti tra Paige e i suoi genitori ha tenuto banco per gran parte delle stagioni. Ed è lo scontro tra due sensibilità diverse, tra due culture diverse – Philip ed Elizabeth sono cresciuti in Unione sovietica seguendo i dettami di quel tipo di cultura, Paige è invece nata negli Stati Uniti e in quel contesto ha sempre vissuto -, tre due diverse maniere di approcciarsi alla vita. Era inevitabile che il confronto diventasse scontro, che ci fossero dei punti di rottura, degli strappi. Come pure era inevitabile che Philip ed Elizabeth prendessero le distanze dai loro supervisori, appartenenti a una generazione diversa di spie, più anziana e meno flessibile, ancora legata alle atrocità della guerra, che invece le nuove generazioni avevano vissuto di riflesso, con lo sguardo ingenuo di bambini.
The Americans è anche una guerra tra giovani contro vecchi, tra progressismo e conservatorismo, tra aperture mentali e rigidità.
E non è una questione che riguarda solo i protagonisti. Anche nei filoni narrativi secondari troviamo spesso questa contrapposizione: tra Stan e suo figlio, tra Oleg e suo padre, tra Oleg e i suoi superiori. Contrapposizioni che raccontano meglio la complessità delle scelte di quelle generazioni e che tracciano un quadro più ampio su tutto il periodo della Guerra fredda e degli interessi contrapposti – anche generazionali – in gioco.
9) La profondità e il fascino dei personaggi secondari
Abbiamo detto che la complicità tra i due protagonisti è un elemento che dà forza a un prodotto come The Americans. Ma non sono solo Elizabeth e Philip Jennings i personaggi più interessanti della serie. Attorno a loro ruota tutta una serie di figure enigmatiche e difficili, contorte e profonde. Non ci sono personaggi banali in The Americans. Tutti, persino le comparse occasionali, sono mossi da impulsi diversi. Nina, Claudia, Martha sono alcuni degli esempi femminili che testimoniano parte di questa struggente complessità, così come lo sono anche i profili maschili. Ma se c’è un soggetto che più degli altri riesce a rendere il grado di profondità cui questa serie può arrivare, quello è Oleg. Il suo percorso all’interno di The Americans conosce fasi di ascesa e fasi di discesa. Oleg tocca con mano cosa siano sofferenza e paura, ma è un personaggio che sa leggere con straordinaria ironia le situazioni della vita. Non basterebbe un intero articolo per sbrogliare l’intricato mondo interiore che questo personaggio si porta dentro. Meriterebbe uno spin-off a lui interamente dedicato.
10) L’angolo di visuale
E infine, un elemento ulteriore che ha fatto di The Americans un prodotto diverso dagli altri è l’angolo di visuale dal quale la storia viene raccontata. Non si tratta infatti di una trama appiattita sulle posizioni americane. Non è il racconto della Guerra fredda visto dalla prospettiva degli Usa. I protagonisti di questo show sono due spie sovietiche, che carpiscono informazione agli americani e le trasferiscono a Mosca. La serie, come abbiamo già detto, non erige steccati tra posizioni diverse, non individua degli eroi buoni che combattono contro i nemici cattivi, ma cerca di dare un quadro estremamente coerente e credibile del periodo storico che racconta. E nel farlo, la prospettiva sovietica viene posta in gran risalto: sovietici sono i protagonisti, sovietico è Oleg, sovietici sono i supervisori dei Jennings e decine di altri personaggi che affiorano nel corso delle stagioni. Chi guarda The Americans non si trova davanti un prodotto banale, che proponga delle letture elementari, bensì un’opera estremamente articolata e convincente, che sa penetrare a fondo nelle diverse sensibilità e nei diversi punti di vista per creare scompiglio, confusione, per disorientare lo spettatore e spingerlo a riflessioni più complesse, più articolate. In altre parole, quella proposta da Joe Weisberg non è una versione di parte del racconto della Guerra fredda, come se ne trovano a decine in giro.