ATTENZIONE: l’articolo contiene spoiler sulle sei stagioni di The Americans.
Ci sono serie tv che puntano tutto sull’adrenalina, sul ritmo concitato, sui battiti accelerati e sull’eccitazione del momento per accaparrarsi le simpatie del pubblico. Lo spettatore ne esce frastornato, non ha il tempo di porsi domande, di rilassarsi, perché un colpo di scena, una sequenza ad alto impatto visivo o un scambio animato, rimescola tutte le carte in tavola, tiene col fiato sospeso, costringe a restare inchiodati alla poltrona per vedere come andrà a finire, a dispetto di tutto. I prodotti che puntano dritto al coinvolgimento del pubblico prediligono un’andatura accelerata, vivace. Impostano la propria rotta sulle coordinate dell’entertainment puro, sacrificando in qualche caso la qualità, in altri casi no. Una serie tv può essere più o meno lenta a seconda delle scelte registiche che ne definiscono la struttura.
The Americans non è uno show dal ritmo scoppiettante, almeno non in ogni sua parte.
È una spy story ambientata negli anni Ottanta e, come ogni prodotto ricollocabile a questo genere televisivo, fa ampio ricorso a plot twist, cliffhanger ed espedienti narrativi che mirano a tenere alta l’attenzione di chi guarda.
Ma in The Americans è tutto più misurato, compassato. La serie sceglie il ritmo lento come sua cifra stilistica, il silenzio come mezzo di comunicazione più potente. Si prende i suoi tempi, accelera quando deve, riempie i suoi spazi con materiale che poi elabora in corso d’opera. Senza eccedere, senza bombardare lo spettatore con colpi di scena telefonati, sequenze d’azione da action movie, eccessiva verbosità o altro.
Cammina seguendo la sua andatura e la lunga traversata che ne consegue è molto più scoppiettante di una corsa folle in autostrada, con i finestrini abbassati e la musica a tutto volume.
Joe Weisberg ha creato un gioiellino che gode di molta meno popolarità di quello che dovrebbe. È una serie gigantesca, con interpreti grandiosi e con uno tra i migliori finali di serie di sempre. Mai scontata, mai approssimativa, mai insipida. Ci ha coinvolto senza eccedere col fan service, senza ingolfare gli episodi con una scrittura eccitata e provocatoria. Si è presa i suoi tempi per raccontarsi e ha fatto benissimo, perché abbiamo amato le sue pause, le sue lungaggini, il suo modo di procedere per tappe. The Americans è un pezzo da novanta della serialità televisiva che forse in Italia capiremo troppo tardi.
Racconta la storia di una coppia di spie sovietiche che raccolgono informazioni per il KGB spacciandosi per americani. Hanno una famiglia benestante, con figli nati e cresciuti in Virginia, amanti dell’hockey su ghiaccio e dei cheeseburger dei grandi fast food. Non hanno idea di come sia la vita a Mosca, non hanno mai rinunciato ai benefici del capitalismo e frequentano amici americani, distanti anni luce dall’indottrinamento della scuola di pensiero comunista. Hanno una bella casa, col giardino curato, ordinano cibo spazzatura e vivono perfettamente amalgamati nel tessuto sociale della Virginia degli anni Ottanta.
Siamo in una fase storica delicata: dopo la stasi degli anni Settanta e i tentativi di distensione, un nuovo rigurgito di Guerra Fredda piomba a gelare il pianeta. Siamo negli anni della presidenza Reagan e della crociata occidentale all’Unione sovietica. I russi sono i nemici giurati degli Stati Uniti, il clima internazionale è incandescente, basta di nuovo una piccola scintilla per far saltare qualsiasi tentativo di intesa.
In questo contesto è ambientata la vicenda di The Americans.
Che è una serie storica di spionaggio, piena di sottigliezze, di tensione, di carica drammatica. Ma il materiale narrativo viene dato in pasto al pubblico un po’ per volta. Non siamo ad un’abbuffata di gruppo, con cumuli di pietanze a disposizione sul tavolo del buffet. The Americans è piuttosto un pranzo di classe, con prelibatezze che vengono servite un po’ per volta, senza fretta, lasciando al palato il tempo per assaporarle fino in fondo. È un percorso lento, graduale, a cui la regia ci prepara poco per volta. Gli episodi non sono autoconclusivi: al contrario, la storia ha bisogno di intere stagioni per chiudere dei filoni narrativi. Gli archi di alcuni personaggi impiegano anche tutto il corso della serie per chiudersi. Martha, il personaggio interpretato da Alison Wright, è centrale nelle prime stagioni, diventa marginale in quelle centrali e viene ripescato verso la fine della serie.
I drammi personali dei protagonisti impiegano tempo per essere affrontati con piena consapevolezza. Non parliamo solo di Elizabeth e Philip, ma di Oleg, Stan, Arkady Ivanovich, Nina e tutti gli altri. Ogni personaggio è uno scrigno da aprire e da scrutare attentamente, fino in fondo. Ma, per farlo – e per farlo bene -, occorre una cosa di cui talvolta le produzioni televisive credono di poter fare a meno: il tempo.
Esistono serie tv che lasciano ascoltare il rombo dei propri motori: serie dal motore scoppiettante, dall’accelerata pazzesca, dal cambio di marcia poderoso. Lo stile narrativo di The Americans è invece slow burning, a combustione lenta.
Il centro nevralgico della serie non sono le missioni delle spie sovietiche sul suolo USA. Le identità di Elizabeth e Philip, la loro professione segreta, sono il fulcro della narrazione, certo. Ma è sulla sfera personale dei singoli personaggi che si focalizza lo show. Non è la grande Storia ad essere la protagonista di The Americans. Questa fa da sfondo a un dramma personale che ciascun personaggio vive a modo proprio. L’idea di Joe Weisberg era quella di capire cosa potesse succedere a due individui scaraventati dall’altra parte del mondo, costretti a omologarsi a uno stile di vita diametralmente opposto al proprio, messi sotto pressione costante dal proprio lavoro segreto e indotti a fare i conti con le conseguenze delle proprie azioni.
È possibile reprimere qualsiasi tipo di emozione? Come ci si sentirebbe a mentire costantemente, giorno dopo giorno, a tutte le persone con cui si viene in contatto, compresi i propri figli? La natura umana può rivelarsi tanto fredda e cinica da ignorare tutte le tensioni esterne, i rapporti di amicizia, i bisogni intimi d’affetto?
Quanto può resistere un essere umano sottoposto a un tale livello di stress?
Le risposte sono tutte da cercare nelle trame di The Americans, negli sguardi complici di Philip ed Elizabeth, nei gesti e nei silenzi che esprimono più di qualsiasi dialogo. Il tragitto compiuto dai protagonisti di questa serie è un ottovolante emotivo che ha bisogno dei suoi tempi per essere scandagliato per bene. Non basta prendere la rincorsa e tuffarsi a capofitto nelle vicende dello show. Ci vuole una planata lenta, un diradarsi graduale nelle maglie della trama. E il valore di The Americans sta tutto nell’aver capito che non è necessario un ritmo adrenalinico per tenerci col fiato sospeso.
A volte, prendersela con comodo è molto più efficace che darci dentro ad ogni episodio. La narrazione lenta ha i suoi pregi e questa serie ce li ha mostrati tutti.