Joe Weisberg e Joel Fields hanno fatto una serie incredibile. Questo è il punto di partenza da cui bisogna cominciare per parlare seriamente di The Americans. Chi nel 2013 si è trovato, quasi per caso, ad iniziare questa serie si è trovato dinnanzi a un ottimo prodotto televisivo sullo spionaggio, che è quello che apparentemente era: alcune missioni duravano lo spazio di un episodio, altre attraversavano intere stagioni e certi sviluppi della trama, infine, andavano avanti per anni. Tutto questo ovviamente, in quell’inizio folgorante, non era dato saperlo. I combattimenti erano sanguinosi, i brividi elettrizzanti e le parrucche e i travestimenti di prim’ordine. Ma sotto sotto, anche quando le persone finivano nelle valigie o venivano smembrate nei parcheggi, tutte quello che vedevamo e ci raccontavano ruotava completamente attorno alla storia di un matrimonio. Alla storia di una famiglia.
Parte di ciò che ha reso incredibili e così profondamente sentite le performance di Keri Russell, Matthew Rhys, Noah Emmerich, Holly Taylor, Alison Wright, Margo Martindale, Frank Langella solo per citare i principali, era la tensione che spesso emergeva quando la missione da svolgere andava contro l’emozione che rappresentava la superficie dei rapporti umani. Veri o fittizi che fossero. Quella tensione aggiungeva sempre un altro strato a uno spettacolo già di per se estremamente stratificato e tridimensionale. Philip, ad esempio, poteva parlare a Kimmy con tenerezza, ma anche con rimorso e disgusto di sé o perfino con dolore. Tanto dolore. Anni di dolore. Il family drama soverchiava la spy story, come le convinzioni di Elizabeth dominavano la potenza dei suoi camuffamenti. Oggi non ci soffermeremo particolarmente sulla trama, se non quando funzionale al discorso, per un approfondimento su questo aspetto di The Americans vi rimando a quest’ottimo articolo sul nostro sito.
Ed eccomi qui, un umile fan di The Americans, incaricato di analizzare quest’opera d’arte mentre sotto la superficie, tutto quello che vorrei fare è singhiozzare ancora un po’ ripensando a quel treno che parte e si allontana dalla stazione.
Eppure in Italia abbiamo una certa rarefazione d’attenzione verso prodotti che raccontano modelli di vita che non sono i nostri. Riusciamo ad empatizzare e immergerci nei drammi umani di un professore fallito che sull’orlo della disperazione inizia a smerciare metanfetamine o nelle vicende altrettanto drammatiche di un malavitoso italoamericano che rincorre l’autoaffermazione e la salvezza della sua psiche, e cito volutamente due tra i più grandi capolavori del medium proprio per far capire che anche con The Americans siamo nell’Olimpo delle serie tv. Ma quando la trama principale attraversa un contesto storico o sociale che culturalmente ci ha solo lontanamente intersecato, ecco che serie magistrali ci sfuggono tra le dita come fine sabbia del deserto (del New Mexico, ovviamente). Oggi parliamo di The Americans ma questo discorso si potrebbe estendere tranquillamente a The Wire, OZ, Mad Men o The Newsroom. Ovviamente un pubblico di nicchia più o meno nutrito queste serie l’hanno anche nel Belpaese, ma parliamoci chiaro, rispetto alla visibilità che hanno avuto all’estero, da noi sono più un nome da spendere per fare bella figura che non qualcosa che il grande pubblico ha davvero guardato e vissuto.
Come anticipato il motivo principale che credo sia alla base della nostra incapacità di intercettare “in massa” questi prodotti sia da ricercare nel contesto narrativo in cui si svolgono. Le vicende di Baltimora o i drammi della vita in carcere (non sotto la lente di un thriller poliziesco come Prison Break) sono argomenti che, mi sembra evidente, non fanno presa sul nostro grande pubblico. La Guerra Fredda è un altro di questi argomenti. Se non è in chiave d’azione pura (innumerevoli film in merito, cito su tutti Caccia a Ottobre Rosso) questo periodo storico del ‘900 è stato vissuto in Italia in modo macroscopicamente diverso che nella maggior parte degli altri Paesi. Questo retaggio influenza ancora la nostra società. The Americans fa un lavoro straordinario per presentarci gli anni ’80. Non gioca sull’effetto nostalgia come magistralmente fatto da Stranger Things, ma decide invece di immergervisi in ogni suo aspetto in modo radicale. Il titolo stesso può essere visto, anzi lo è, un gioco di parole sull’identità degli agenti russi, ma alla fine parla degli ideali, di cosa significhi appartenere e sentirsi parte di una comunità. Famiglia, Organizzazione o Paese che sia, le scelte che facciamo come individui influenzano coloro che ci circondano, nel bene e nel male, e The Americans cattura questa realtà con intelligenza, shock, calore, sex appeal, suspense e totale soggezione.
Le sei stagioni della serie sono ambientate dall’inizio del 1981 fino alla fine del 1987 e mentre i numerosi flashback scavano un po’ più a fondo nel passato, la maggior parte dell’azione ci porta sullo schermo gli elementi più caratteristici degli anni ’80. Ma degli anni ottanta statunitensi. Come detto The Americans riesce a catturare il decennio con meno nostalgia e più accuratezza della maggior parte degli altri prodotti ambientati retrospettivamente in quel periodo. Mette in scena sapientemente i suoi eccessi, i dettagli sono precisi e puntuali, l’atmosfera e la sensazione del tempo sono altrettanto autentici. Dall’atmosfera di vicinato della periferia all’aria di paranoia e paura amplificata dalla Guerra Fredda, quella che vediamo è esattamente l’America di Ronald Reagan. Ma vista attraverso gli occhi degli infiltrati. Questo che è uno dei suoi punti di forza per noi, italiani intendo, è forse un punto contro. Se non facciamo un personale lavoro di razionalizzazione e critica.
La configurazione di base di The Americans ci introduce una famiglia modello di quattro persone che vive appena fuori Washington, ma l’aspetto può ingannare e lo fa sapientemente. Philip (Matthew Rhys) ed Elizabeth Jennings (Keri Russell) gestiscono un’agenzia di viaggi mentre i loro due figli, Paige (Holly Taylor) e Henry (Keidrich Sellati), frequentano la scuola, giocano con gli amici e vivono la loro vita americana ignari della verità dei loro genitori. Quella verità, ovviamente, è che sono spie russe che camuffano il loro aspetto per affrontare missioni che vanno dal furto, al sabotaggio, all’assassinio. La realizzazione tecnica e narrativa di tutto ciò richiede abilità, dedizione e, a volte, un investimento attoriale e di fotografia eccellente per ritrarre in modo credibile gli stessi personaggi in aspetti così completamente diversi.
È su questo aspetto che la sfida morale di The Americans alza l’asticella, poiché sia Philip che Elizabeth manipolano altre persone a volte al punto da costruire amicizie ed entrare in relazioni che raramente finiscono bene per l’altra parte. Queste interazioni possono durare un episodio o estendersi su più stagioni, ma raramente scadono in ritmi di una storia pigra, lenta, poiché ogni singola relazione è un tassello in un mosaico più grande. Ogni singolo personaggio principale o secondario è parte del tutto. Dal punto di vista della narrativa tutte queste azioni sono controllate da oltre oceano, da quell’intelligence russa che tira le fila del guinzaglio che imbriglia i Jennings. E sono ordini che non possono essere disobbediti. Questa coppia, messa insieme per ordine piuttosto che per amore, trova però la propria verità emotiva nel corso degli anni e gli spettatori con loro. Dobbiamo presumere che staranno bene da un episodio all’altro dato che sono i protagonisti, ma non è necessariamente così poiché affrontano lotte insieme o separati che a volte vedono prendere strade così diverse da rendere ignoto qualunque esito. Tutto questo si traduce in una forma di intrattenimento ad alto livello di tensione nella sua espressione migliore.
Tutto questo reso poi senza mai rischiare di prendere una deriva esclusivamente cerebrale o psicologica. The Americans offre una quantità di ritmi d’azione che vanno dal brutale e sanguinante alla manipolazione sessuale e amorosa senza precedenti. La vera forza della serie però è nella capacita di rendere spasmodica e mozzafiato la calma prima di queste tempeste. L’attesa di qualcosa che sai che sta per arrivare ma non sai come e quando colpirà. Ma quando colpisce The Americans lo fa con energia, stile e, il più delle volte, anche con una scelte di canzoni coinvolgenti di artisti come Peter Gabriel, Yaz, Crowded House, Roberta Flack, Fleetwood Mac, U2, Alabama e molti, molti altri da togliere letteralmente il fiato.
Le serie tv migliori e più meritevoli sono quelle che sanno indubbiamente raccontare una storia avvincente che si sviluppa attraverso episodi e stagioni. The Americans inizia con una solida premessa di genere che coinvolge spie infiltrate in cellule dormienti nella vita americana, e realizza qualcosa di impressionante nel consentire loro di fare cose terribili pur rendendole persone simpatiche e comprensibili che crescono attraverso e insieme alle loro esperienze. Indubbiamente nello spettatore sapere già come sarà il “finale” del loro mondo aiuta a empatizzare.
Inutile dire che gli anni ‘10 sono stati un decennio monumentale per la televisione. Breaking Bad e Game of Thrones hanno dominato gli schermi, mentre molte altre serie hanno trovato vari livelli di popolarità e, naturalmente, servizi di streaming come Netflix, Amazon Prime Video hanno lanciato centinaia di serie originali con alcune di notevole livello. Con così tanta grande televisione da poter scegliere, senza considerare tutte quelle uscite prima di allora che si potevano recuperare, era inevitabile che alcune gemme cadessero nel dimenticatoio e, sfortunatamente, una di queste in Italia è stata proprio The Americans.
Il viaggio in cui ci accompagna The Americans ci fa vivere le motivazioni dei personaggi che la compongono, le loro storie e le loro mutevoli speranze per il futuro e si trasforma, nella sua ultima stagione, in una delle serie più ricche di suspense e tensione della storia del piccolo schermo. È elettrizzante, sexy, riconoscibile e mai meno che coinvolgente. Questa è una televisione magistrale più che meritevole del nostro tempo. I finali delle serie tv sono notoriamente difficili da realizzare, soprattutto per spettacoli di livello. Da un lato è pure vero che abbiamo vissuto grandi esperienze come le conclusioni di Breaking Bad o The Leftovers (un’altra serie incredibile che probabilmente qui da noi molti si sono persi), ma ne abbiamo anche avuti molti davvero deludenti come Lost o addirittura disastrosi come Game of Thrones. Per fortuna, The Americans arriva dall’altra parte dello spettro, non solo avendo un grande finale, ma probabilmente il miglior finale di una serie nell’ultimo decennio. Un finale incredibile per una serie incredibile. Quindi, cosa si può fare per cambiare il destino di The Americans nel nostro Paese? Semplicemente regalarsi 75 fantastici episodi televisivi che scorreranno veloci e incalzanti davanti ai nostri occhi come fossero le immagini fuori da un finestrino, nel viaggio che ci porta verso le agognate vacanze.