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The Bear 2×10 – Un finale che ci ha lasciati a guardare il soffitto

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Ogni sabato sera, sempre alle 22.30, vi portiamo con noi all’interno di alcuni tra i momenti più significativi della storia recente e passata delle Serie Tv con le nostre recensioni ‘a posteriori’ di alcune puntate. Oggi è il turno della 2×10 di The Bear.

Le emozioni non viaggiano su binari lisci, lineari, impeccabili, senza cambi di rotta; le emozioni viaggiano su sentieri irti di ostacoli e tra altalenanti sali e scendi. The Bear 2×10 ce lo dimostra, prendendoci metaforicamente a pugni nello stomaco.

La gioia si mischia alla rabbia sfociando inevitabilmente nella malinconia, la quale scava dal sottofondo fino alla superficie per spazzare via ogni altra sfumatura emotiva in questo turbolento, caotico, straniante e dannatamente profondo finale di stagione.

L’affollamento nel ristorante, l’ansia da prestazione di Carmy, il bagaglio di rapporti rotti, ricuciti o nati da una fortuita scintilla, le mille complicanze, tutto dà l’impressione che ogni cosa si regga su un minuscolo e fraglie filo. Negli angusti spazi della cucina e nella pressante caoticità della sala è racchiuso tutto il passato, il presente, il dimenticato e l’inesplorato di ciascuno dei protagonisti. Sembra che ogni cosa accaduta fino a quel momento sia servita a portare lì, dove tutto è sfociato.

Per Carmy, però, l’illusione ottica di un passato terribile, segnato dall’oppressione e dal senso di inadeguatezza, fa crollare ogni cosa.

Siamo spesso il frutto di ciò che ci è stato fatto e Carmy è l’esatta rappresentazione di ciò. L’ombra e la morte del fratello, la follia di una famiglia fuori da ogni logica e la tortura di un mentore scombussolano ogni sua certezza portandolo a dubitare di se stesso e a rinnegare la parvenza di sé che stava imparando ad amare. Il suo passato destabilizza il suo presente, mettendo un tremendo veto sul suo futuro. In questo fatidico momento la malinconia scava dalla profondità, “congelandolo” per un po’ di tempo nel suo limbo, in modo tale da costringerlo a fare una cosa che non ha mai fatto in vita sua: fare i conti con se stesso.

Lo chef del The Bear chiuso in una cella frigorifera viaggia a ritroso nella sua psiche. Egli non è più uno degli astri nascenti della cucina mondiale, non è più il fratello minore di Mikey e non è più nemmeno il proprietario di un ristorante, in questo momento è solo un ragazzo pieno di paure, insicurezze e che non ha mai fatto veramente i conti col passato. Carmy si spoglia da tutto ciò che gli altri credono di sapere di lui e rimane “nudo” davanti a uno specchio. E lì, in quell’esatto frangente, vede il riflesso di un uomo che non è libero, vede il riflesso di uno “schiavo”, una persona oppressa dalla tristezza e dalla malata convinzione di non meritare amore, gioia o svago, di non meritare che qualcuno lo ami perché lui non può avere qualcosa di buono dalla sua vita, lui deve avere la sua routine perché se è quel che è lo è solo per quel motivo. Carmy crede che quello che gli altri vogliano da lui sia anche quello che vuole lui e diventa schiavo di questa agghiacciante convinzione. Pur di non deludere gli altri lui distrugge se stesso, ignaro del fatto che il mondo fuori lo adora per quel che è, nonostante non sia perfetto e nonostante sbagli in continuazione. Fuori da quello gelido stanzino c’è chi lo ama incondizionatamente, ma lui ancora non lo sa.

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E mentre un uomo combatte contro se stesso in una cella frigorifera anche una madre affronta la realtà.

Donna finalmente toglie il velo, illustrandoci i tratti della sua condizione malsana e opprimente. La madre di Carmy e Nat irrompe silenziosamente spaccando il proprio cuore in mille pezzi davanti a un Peter inerme testimone di una terribile confessione. Il monologo della signora Berzatto è tremendamente potente e dimostra la forza intrinseca che scaturisce dall’accettazione di se stessi. L’amore sconfinato per i figli, lo schifoso dolore che non va mai via e che ti costringe a un inevitabile e crudele autolesionismo emotivo, non superano lo scoglio che molti di noi non riescono a sormontare: quello di dimostrare cosa si prova. Per indisposizione ad aprire il nostro cuore, per orgoglio, per vergogna, o per via della prigionia emotiva in cui i nostri traumi ci rinchiudono, siamo tutti come Donna in questo momento, non incapaci di provare amore, ma fallaci nel dimostrarlo. E questa cosa devasta dentro, proprio come ha devastato una madre incapace di entrare nel ristorante dei figli per condividere con loro la gioia per un nuovo inizio. Lei non sa come farlo, non sa dire “mi dispiace”, non sa come dimostrare un’incalcolabile amore, ma questo non vuol dire che i suoi sentimenti siano meno puri.

La scelta di non entrare, la scelta di guardare da fuori, la scelta di andarsene nuovamente non fanno di Donna una cattiva madre o una persona indecente, bensì fanno di lei un ritratto ben più complicato da descrivere. Quello di una persona che sceglie di distruggere se stessa per non distruggere gli altri, pur amando alla follia. E tutto quel monologo, tutta la sua confessione, tutto quell’intermezzo narrativo ci ha veramente devastati.

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Il finale della seconda stagione di The Bear ci ha veramente presi a pugni nello stomaco.

Ci siamo resi tutti conto di quanto il dolore emotivo molto più spesso di quanto crediamo abbia natura autolesionista. Siamo tutti Carmy, diamo più peso a quello che vogliono gli altri da noi e non a quello che vogliamo in realtà noi, dando per certo il fatto che non meritiamo qualcosa solo perché “quella volta ci è andata male”; siamo tutti Donna, abbiamo paura di entrare da quella porta e dimostrare i nostri sentimenti. Siamo tutti stolti quando pensiamo che nessuno sia in ascolto, perché c’è sempre qualcuno che può dimostrarti il suo affetto persino nei momenti più bui, quando inconsciamente facciamo di tutto per non meritarci niente.

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