“This could be the saddest dusk ever seen
You turn to a miracle high-alive
My mind is racing as it always will
My hands tired, my heart aches
I’m half a world away, here” (Half a World Away, R.E.M.)
The Bear travolge i protagonisti e gli spettatori. La serie creata da Christopher Storer strattona tutti senza pietà, emotivamente, psicologicamente e fisicamente in un continuo servizio da ristorante dal quale sembra impossibile uscire, anche quando The Beef prima e The Bear poi chiudono i battenti di notte. Frenesia, ansia, risentimento sono, tuttavia, solo alcuni degli ingredienti di questo piatto da chef stellato che è la serie distribuita da Disney+. C’è tanto amore, tanto calore e infinita passione in questa costante lotta di Carmy e gli altri protagonisti contro uno degli antagonisti della storia: l’alienazione.
In un certo senso, l’alienazione accomuna tutti i personaggi ma è dalla prospettiva di Carmy che si deve partire. In sociologia è sicuramente E. Fromm ad essersi occupato per primo di tale concetto (cfr. Psicanalisi della società contemporanea, 1955), giungendo alla conclusione che l’uomo contemporaneo, l’uomo del ‘900, ha talmente de-umanizzato l’essenza stessa della propria esistenza – concentrandosi solo sul produrre e sempre meno sul sentire – che è diventato estraneo a se stesso. È una condizione, quella dell’estraneazione da se stessi e da ciò che ci circonda, molto comune nella società odierna: è facile, infatti, sentirsi separati da se stessi, e quindi dagli altri, perché si rinuncia sempre più spesso a guardare il sé come parte di un gruppo, mentre si tende con preoccupante frequenza a intenderci come tanti singoli indipendenti, esclusi da dinamiche sociali che ci possono unire. La sensazione di solitudine è, non a caso, uno dei disagi psicologici più comuni del mondo di oggi. Carmy, in questo senso, è solo.
L’alienazione di Carmy comincia nella prima puntata. In quella cucina lasciatagli da un fratello ormai distante e morto suicida, lo chef è solo. Gli altri componenti della “brigata” non lo capiscono, sono restii ai cambiamenti, pensano (soprattutto Richie) che il giovane chef non abbia la più pallida idea di cosa stia facendo. L’orso, tuttavia, conquisterà la fiducia di tutti i suoi collaboratori e si capisce ben presto che non erano loro il “problema”. Infatti, salto temporale all’ultima puntata della seconda stagione: nel giorno del trionfo del nuovo ristorante, il The Bear, Carmen non c’è. Fisicamente. È accidentalmente rinchiuso nella cella frigorifera e non può uscire perché ha dimenticato, nei giorni precedenti, di contattare il fabbro che applicasse una maniglia. Carmy è più alienato che mai. Non godrà con gli altri, che forse per la prima volta smettono di essere a loro volta alienati, del successo dell’esordio del ristorante. Anzi. Distruggerà tutto: la sua relazione con Claire, il rapporto col cugino Richie. Tutto mentre è chiuso, solo, in una cella. Lo chef non c’è. Forse non c’è mai stato.
La domanda, a questo punto, diventa: perché?
Christopher Storer gioca moltissimo col concetto di compensazione. La prima stagione di The Bear sembra, in tal senso, un vero e proprio antipasto rispetto alla portata principale che è la seconda stagione.
L’autore, in quello che solo apparentemente è un marasma caotico e incomprensibile, crea in realtà un’alternanza quasi perfetta tra caos e ordine, tra ansia ed emozioni positive, tra distruzione e costruzione. La ricerca dell’equilibrio è data sia da un punto di vista visivo che narrativo.
Nella prima stagione, infatti, l’episodio 7 (Review) si caratterizza per una frenesia totale: esso è girato tutto in piano sequenza, ciò vuol dire che non ci sono montaggi, gli attori non hanno tempo per respirare, la scena va portata a casa tutta d’un fiato: se si sbaglia, si ricomincia da capo. L’idea di utilizzare questa tecnica di ripresa durante un servizio in un ristorante è quantomai ambiziosa e al contempo appropriata. Comunica totalmente l’ansia, il movimento addirittura che ogni protagonista vive in quello spazio ristretto. Anche l’ultimo episodio della seconda stagione (The Bear) è parzialmente strutturato in questo modo: una parte della puntata, infatti, è girata in piano sequenza. Poco dopo, comincia una costante serie di frenetici montaggi non appena il servizio comincia. Equilibrio, appunto.
Questa ricerca è, inoltre, anche narrativa. Spesso, a un episodio frenetico e visivamente confusionario ne segue uno più placido, più riflessivo, più “fermo”. Soprattutto nella seconda stagione, i personaggi ci vengono raccontati, e non solo mostrati. Vengono fotografati, e non solo “buttati” in una cucina. In quest’ottica, lo straziante episodio della cena di famiglia (Forks, 2×07) si serve dei primissimi piani per farci stare seduti coi protagonisti a quel tavolo di amore, risentimento, disagio e inadeguatezza. Guardiamo gli occhi dei personaggi (straordinarie le tre guest star: Bob Odenkirk nei panni del poco gradito zio Lee, John Bernthal in quelli del defunto Mikey e Jamie Lee Curtis come la mater familias della famiglia Berzatto, Donna) e percepiamo le loro emozioni: imbarazzo, odio, amore, affetto, pietà, vergogna. C’è di tutto in quella cena natalizia. C’è tanto di ciò che ci si aspetta in una cena di unione del genere, ma c’è tantissimo di ciò che non ci dovrebbe essere. La fragilità di tutti i personaggi si tasta da quanto facilmente siano sul punto di crollare. Donna, in particolare, è probabilmente l’emblema di questa sensazione: la madre che non sa come celebrare i propri figli, incapace persino di entrare nel nuovo ristorante per paura di rovinare tutto. Soli, i protagonisti di The Bear sono tutti soli, alienati. Il collante che potrebbe tenerli uniti, la famiglia (allargata) è troppo logoro per attaccare come dovrebbe.
Eppure, si fa il tifo per loro. Perché? Perchè tutti, da Carmy a Sydney, da Richie a Sugar, ci danno una ragione per sperare. Speriamo che Carmy possa capire chi è davvero, guardarsi dentro e non trovare solo le comande di un ristorante stellato. Speriamo che Sydney vinca le battaglie con se stessa, prima che con gli altri. Speriamo che Richie abbia davvero trovato la sua armatura nei completi che indossa. Speriamo che tutti capiscano, prima o poi, che non sono soli: la specialità che c’è in ognuno di loro non è ciò che deve alienarli, ma quello che può salvarli. Tifiamo per tutti loro.