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Donna e Carmen Berzatto, martiri della cucina che chiudono la porta in faccia alla felicità

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla seconda stagione di The Bear

Una porta chiusa, dietro di sé. Il distacco da un microcosmo insostenibile, una scelta consapevole che si traduce nel beffardo gioco di un destino che assume la forma dell’autosabotaggio. Grida di dolore, parallele: una richiesta d’aiuto che arriva da fuori per poi echeggiare dentro, in un gelido purgatorio che si aliena dalle logiche del tempo e dello spazio per lasciar terreno libero agli spettri di un passato mai affrontato fino in fondo. Un’auto, una madre: un frigorifero, un figlio. Un orso che graffia la propria anima e riserba le carezze ai cari amati. Frammenti di una tragedia, nel caos dell’istante. Nell’armonia di una narrazione che riordina ogni ingrediente per trovare la ricetta perfetta della serie ideale, quasi fosse un’estensione della propria opera. La narrazione di The Bear, negli intrecci plateali tra il sesto e il decimo episodio della seconda stagione. E di una saga familiare che schiude i tragici parallelismi tra una madre e un figlio, uniti da un filo sottile che rifugge la felicità e li cristallizza in un monolite incapace di muoversi verso il futuro.

Questa, in fondo, è la sintesi perfetta di quel che ha voluto raccontarci la seconda stagione di The Bear a proposito del suo protagonista e del suo male di vivere. Un racconto per il quale sarebbe riduttivo spendere le solite parole d’elogio e che merita d’essere analizzato a fondo, capito in ogni suo dettaglio. Attraverso due tra gli episodi più significativi degli ultimi anni: Fish e l’omonimo finale di stagione, The Bear. Puntate in cui la danza caotica di una cucina infernale si combina con la delicata lirica di una prosa brutalmente realistica. E in cui le connessioni tra Donna e Carmen Berzatto si sublimano nel ventre di teatrali analogie che si riproducono all’interno dei due momenti chiave della stagione: la cena natalizia di famiglia del magistrale episodio flashback e l’altrettanto straordinaria inaugurazione del nuovo locale. Tra metafore sportive, stratificate vicende umane che coinvolgono decine di personaggi dall’imponente soggettività individualità, schegge di poesia e violenti capovolgimenti di scenari mai davvero prevedibili, emerge con forza la propulsione distruttiva di due protagonisti incapaci di trovare un posto al sole. Naufraghi dispersi che riempiono il vuoto delle loro tragiche esistenze con l’esasperazione di un movimento stritolato nella morsa di un tempo implacabile, prima di ritrovarsi ingabbiati senza la possibilità di trovare una via d’uscita.

Tempo che scorre per tutti rappresentando in qualche modo un elemento di speranza, una nuova alba dopo la lunga notte: una seconda opportunità per valorizzare il proprio potenziale ed essere se stessi nella migliore versione possibile. Il tempo è evoluzione, impulso maniacale al perfezionismo, vita che si combina col cibo per la creazione di una personalissima opera d’arte. Il tempo è libertà, giudice e avvocato, ma non per loro due: se da un lato, per Donna, il tempo si traduce nell’angosciante colonna sonora di una terrazza terrestre sull’inferno, un insano ticchettio che ricerca l’ordine tra le frastagliate onde di una tempesta perenne e si spezza solo con lo schianto di un’auto su una casa distrutta, per Carmen è il segno di una resa nei confronti di un fattore sul quale sembra non poter esercitare il proprio controllo. Un controllo perseguito ossessivamente tra le mura della cucina per mettere a posto tutto il resto. Il tempo, per lui, si ferma all’improvviso tra le gelide pareti di un frigorifero che incarna la sua inconscia fuga dalla felicità: l’attentato fatale a un’esistenza oltre le proprie ambizioni e al vincolo di essere il numero uno, auspicio e spauracchio di un percorso spogliato alla radice d’ogni riferimento stabile. Una felicità che aveva assaporato nel riflesso dello sguardo etereo di Claire. E l’aveva persino illuso di poter neutralizzare le tossicità che l’avevano sempre avvelenato, prima di prendere atto di aver deviato il proprio cammino mentre tutti gli altri, umili donne e uomini che hanno offerto la propria anima in nome del disegno di un genio, trovavano la via per la realizzazione.

La cucina, allora, assolve la funzione atavica della sopravvivenza per poi andare oltre, nell’essenza di un atto d’amore incondizionato: nutrire il prossimo, appagare le persone a cui si è legati, sprigionare istanti di gioia nell’esecuzione che sconfina in una vocazione di stampo religioso, fondamentale per rinnovare ritualità che sono parte del proprio codice genetico. I “sette pesci” si ripropongono inevitabilmente nei menù proposti da Donna e da Carmen, dentro un’italianità che evoca il passaggio tra il vecchio e il nuovo mondo: un’illusione, per loro, che ritrova nei commensali la possibilità di esprimere una chiave in qualche modo gioiosa. Così, nella lista delle pietanze dello chef, esplodono l’amore e la nostalgia, la delicatezza e il meticoloso culto di un cibo che riempie lo spirito prima ancora che il corpo. Un moto di gioia che si genera però dalla sofferenza, da un sacrificio estremo in cui il cuoco si fa martire, soggetto asfissiato da un ritmo incalzante che annichilisce ogni possibile piacere. E che si ritrova solo quando il ticchettio ritrova l’armonia col battito di un cuore tranquillo per offrire un servizio a due donne associate, non a caso, da una gravidanza: sia che si tratti di una bibita gassata reinventata dalle mani di Carmen sotto la forma di una bevanda strappata dalle grinfie del consumismo, o della deliziosa omelette ideata da Syd col trasporto di un tenero abbraccio, solo in quel momento il cibo stabilisce una comunione tra chi cucina e chi assapora. Tra chi esegue e chi è accarezzato da un tocco rassicurante, in una stanza che abbatte le barriere tra la cucina e la sala.

Sembra però non esserci spazio per entrambi, nella testa e nel cuore di Donna e Carmen. La loro fuga costante riduce ogni contatto diretto col cibo ad assaggi essenziali e alla consumazione di alcool o di bibite energetiche: la sussistenza, ben prima dell’esperienza sensoriale a cui sottopongono gli ospiti. Non c’è spazio per una gioia alla quale sentono non sia giusto partecipare attivamente: c’è spazio solo per il raggiungimento di obiettivi che prescindono dalle esigenze personali, in nome del benessere di una famiglia bisognosa di rivalsa. Quasi fossero stati condannati da loro stessi all’oblio, dopo aver dato vita a un paradiso terrestre. Un limite strutturale che porta entrambi a rinunciare all’esplorazione del mondo esterno e alla scoperta di prospettive differenti, a un blocco costante chiuso in un microcosmo che impedisce loro di comunicare, esternare e superare trami mai affrontati fino in fondo: l’urlo, lo sfogo e lo scatto d’ira, soffocato di continuo prima di esplodere nel momento meno opportuno, si sostituiscono al dialogo e alla capacità di esser sostenuti dal prossimo, dopo aver sostenuto gli altri. Donna e Carmen restano fuori, chiusi dentro. In lacrime, tra una sigaretta e l’altra.

Ci ritroviamo così sulle struggenti note di Half a World Away dei R.E.M, al termine del secondo atto di The Bear. Con la mente di corsa e un mezzo mondo tra le mani che ha perso la propria metà ideale: un amore finito in nome di un martirio incompiuto, un sacrificio estremo da ritrovare nella disillusione, una situazione sul quale esercitare un controllo militaresco che rinuncia a ogni forma di soggettività. Mentre una madre si ritrova persa tra le vie di una Chicago che la illumina di sinistre luci rosse, in fuga dalla quiete del nuovo mondo in cui i Berzatto possono spezzare il soffocante circolo vizioso di tristezza e fallimenti. Una madre e un figlio, incapaci di confrontarsi, condividono amore e tengono per sé la flagellazione, il severo giudizio, l’implacabile condanna destinata a chi è carnefice della propria persona dopo esser stato vittima degli eventi e dei lutti. Divisi, si ritroveranno ancora chissà dove sul fuoco che incenerisce e purifica, mentre l’orologio scorrerà impetuoso e romperà gli argini del torrente. Per fare le cose in grande e non sentirsi troppo piccoli con l’ennesimo piatto da preparare. Da provare, riprovare e provare ancora per un milione di volte, prima di dar vita alla creatura perfetta: un elogio della bellezza e dell’armonia, generata da creature imperfette. Creature umanamente imperfette, per le quali la notte sembra non voler finire mai da generazioni. E per le quali la porta si ostina a rimanere, mestamente, chiusa: la gabbia dell’orso è ancora inscalfibile, anche se la chiave è tra le loro mani.

Antonio Casu

The Bear – La recensione della seconda stagione