Un’altra giornata di lavoro inizia in The Bear. L’orologio, imperturbabile, scandisce ogni secondo, con quel ticchettio che si fa sempre più forte, sempre più intenso. Un alienato Carmy lo guarda. Si passa una mano tra i capelli, prima di uscire dalla sua oscura caverna fisica e mentale e dirigersi, come sempre, verso i fornelli del The Original Beef; lì dove gli altri chef sono già all’opera. L’olio sfrigola mentre l’aglio prende colore, l’acqua ribolle con forza sopra quei luridi fornelli, la carne inizia a cuocere lentamente nel forno, i mestoli girano frenetici nelle padelle mentre un pomodoro rotola ignorato sul pavimento, la pressione sanguigna si fa sempre più forte sulle loro fronti, tutti corrono in su e in giù all’interno di una cucina fin troppo piccola. Corrono sì, perché nonostante sembra esserci un’eternità prima dell’apertura, in realtà sono già in ritardo. Perché in cucina il tempo non basta mai.
Immerso in un immaginario urbano alla Scorsese, The Bear racconta il mondo culinario in maniera spietatamente realistica, più di tanti romanzati e fasulli cooking reality; ne strappa il velo dell’idealizzazione con uno schiaffo violento, che arriva dritto e doloroso sul nostro volto.
E ne avevamo bisogno. Certo, non neghiamo da fieri italiani che il cibo sia pura gioia, ma non nascondiamo che sia anche sudore e lacrime. È l’ansia di non poter sbagliare un singolo passaggio, pur in certi casi non capendo quale sia la strada corretta, o il rischio è di dover rifare tutto. In preda alla rabbia, alla disperazione, con la fretta come cattiva consigliera. Perché il tempo stringe, più del solito se si compiono errori. Alzare lo sguardo dalla propria preparazione non è concesso. Nemmeno per un minuto, nemmeno per riprendere fiato, nemmeno per osservare la luce delle finestre, che ricorda loro dell’esistenza del mondo esterno. Eppure la cucina è tutto quello che vedono nella serie tv su Disney+. E lì l’aria manca, la tensione è alle stelle, i ritmi sono estenuanti, i turni sfiancanti, le urla costanti, gli spazi angusti. Nessuno respira; nessuno ricorda più come si fa. Né Sidney e Marcus, né Richie e Tina, tantomeno Carmy. Nemmeno noi, in apnea in ogni episodio di The Bear, risucchiati da una claustrofobica realtà piena di rumori, sapori, odori che sembrano tanto reali da poterli sentire come fossero nella stanza accanto.
È il caos. Tra i fornelli, tra i cuochi, tra le scartoffie di un ristorante che è difficilissimo da mandare avanti. Una responsabilità a cui Carmy imparerà ad adattarsi col tempo.
Serve disciplina, rapidità, talento. Carmy e Sidney lo sanno. Ogni giorno lottano, scendono sul campo di battaglia indossando il grembiule come armatura, nel loro inferno quotidiano. E intanto non devono farsi fagocitare dai loro demoni interiori, dalle loro debolezze, da quell’esaurimento professionale dal quale, però, non possono tirarsi fuori. Licenziarsi sarebbe facile. Farla finita sarebbe semplice. Basterebbe lasciare che le fiamme avvolgessero ogni cosa: a Carmy è quasi successo in The Bear. Almeno in quel modo le sue ansie e le sue paure sarebbero bruciate. E quel fuoco, seppur domato nella realtà, continua a tornare nei suoi sogni, assieme a quell’orso simbolo della sua sfida, di quel controllo che può avere manipolando il cibo ma non sulla sua vita.
Già, quella vita completamente dedicata al suo lavoro. Lui vive per lavorare, per afferrare una grandezza irraggiungibile. Con costi psichici altissimi. Con amnesie quasi letali. E chi non si è rivisto in Carmy almeno una volta? O nei suoi chef? Quello nello show di Disney+ sarà anche un mondo magari distante da noi, ma la cucina di The Bear, con i suoi problemi e la sua ambizione, con i suoi sensi di colpa e la sua voglia di riscatto, l’abbiamo frequentata anche noi.
E non a caso The Bear ci catapulta in un locale quotidiano e non in un ristorante stellato. Lì Carmy non ha un minuto per pensare a sé stesso; elaborare il lutto di Michael è impossibile, spiegarsi perché ha scelto lui per dirigere il The Beef è assurdo. Lavoro e privato si mixano, si sovrappongono, si fondono così tanto da diventare un tutt’uno. Quelle giardiniere, quei manzi, quei dolci, quelle salsine raffinate alternate a piatti ipercalorici… ogni cosa nella cucina soffoca il disperato tentativo di guarire, di esprimersi, di tornare di nuovo a vivere. Incarnando nei piatti l’emotività dei personaggi. Tutti, nessuno escluso. Nemmeno noi.
Proprio attraverso il montaggio e il sonoro, entriamo in empatia con gli abitanti di quel mondo a sé stante, ci immergiamo così a fondo in quella cucina da sentirci parte della sua brigata. Imprigionati tra quelle mura. Senza scampo, senza aria. Come fossimo in una realtà aumentata e specie nell’incredibile piano sequenza del settimo episodio, sentiamo il sudore, la fatica, la pressione, l’ansia, il calore eccessivo, la mancanza di ossigeno. Una tensione così intensa che ci schiaccia il petto in modi che non credevamo possibili. Con quella camera che, nello spettacolo su Disney+, si insinua tra i personaggi, nei fornelli, nelle mani che lavorano, nei visi alterati e negli sguardi sfiniti.
Eppure quel caos, che qualcuno vorrebbe far sparire e altri invece non riescono a lasciar andare, diviene indispensabile, familiare e rende i silenzi ancor più significativi in The Bear. Quel modo di Carmy di chiamare tutti chef si trasforma in un veicolo di cambiamento. E quel YES CHEF è il suo motto. Perché è lì che trova il compromesso tra le stelle e le stalle, tra la fatica e il successo, l’io e il noi, tra l’essere fratellino di Michael e l’uomo adulto che deve occuparsi della sua famiglia senza essere travolto dalla marea, ma essendo lui a dettare termini e condizioni. Allora, quella luce, vista in un primo momento solo da fuori, entra nella cucina. Li illumina prepotentemente. Ci porta a quel finale speranzoso e ottimista, pur non eliminando tutto il dolore precedente. Perché sarà anche un inferno quella cucina, ma non possono farne a meno. Anche se lo mettono in discussione, anche se se ne vogliono allontanare.
Carmy non apparteneva al The Beef, eppure è riuscito a creare un piccolo Eden nelle fiamme dell’inferno. Perché la cucina sarà caotica, sarà snervante e faticosa, ma se viene scelta come ragione di vita vuol dire che non ha tutti lati negativi. Essa è unione, fiducia, determinazione e perseveranza. Rappresenta contemporaneamente tradizione e innovazione. E alla fine quella brigata di raccattati riesce a trovare una nuova identità, sotto la giusta guida. Sotto lo chef stellato Carmy, che si è rimesso in discussione nella serie su Disney+.