Nella cucina di Carmy manca l’aria. Il tempo scorre rapido. Incurante di tutto, anche del fatto che nessuno riesca a starci dietro. E delle mancanze di chi non può permettersi di sbagliare eppure non riesce a capire quale sia la strada giusta. Davanti ai fornelli non c’è spazio, la danza dei cuochi non procede mai armonica come dovrebbe, la tensione è alle stelle. Carmy non respira, Sidney neanche, Richie, Tina, Marcus nemmeno si ricordano come si fa. E noi, gli spettatori, ci accorgiamo di essere in apnea per tutto l’episodio, perché The Bear è così: soffocante e meravigliosa, ansiogena e terapeutica. È una contraddizione incomprensibile, la serie del momento, eppure il suo delicato gioco di contrasti è talmente speciale, una ricetta così rara e riuscita, da non lasciare scampo a chi la guarda. Fino a trascinare il suo pubblico in un mondo così saturo di rumori, sapori e odori da sembrare reale.
The Bear è una serie speciale, e lo stanno capendo un po’ tutti, complice quel suo sbarco su Disney+ che sta regalando alla produzione FX una fama globale forse inaspettata, ma certamente meritata. È una serie che non segue alcuna regola prestabilita, che ignora i ritmi della televisione a favore di quelli della cucina, che si muove dentro spazi sempre più stretti, non lascia scampo e senza che lo spettatore abbia tempo di accorgersene entra sotto pelle e non ne esce più.
In The Bear ogni spazio è inondato di luce, ma a mancare è l’aria. E questa ennesima contraddizione non fa che sottolineare quanto poco basti alla serie diffusa da Disney+ per toccare corde nascoste nello spettatore.
È quasi impossibile trovare nel panorama televisivo contemporaneo qualcosa che assomigli anche solo vagamente alla serie con protagonista il talentuosissimo Jeremy Allen White, un tempo Lip Gallagher e ora tormentato Chef, perché The Bear rifugge ogni convenzione prestabilita. La trama orizzontale prosegue a singulti, i ritmi narrativi sono anomali, gli spazi ridotti al minimo, la città di Chicago compare pochissimo ma permea in ogni inquadratura, i personaggi non perdono tempo a farsi conoscere. Tutto nella serie sembra una trappola claustrofobica, eppure una luce accecante invade ogni spazio, ricordando ai protagonisti e agli spettatori che fuori dal The Beef c’è un mondo, a Carmy, Richie, Sidney e agli altri che il dolore che si portano dentro non è per sempre.
La fotografia di The Bear si focalizza sui dettagli, sui difetti di un ristorante a cui Carmy non vuole appartenere e che invece diventa senza che nemmeno se ne accorga tutto il suo mondo, e contribuisce a sottolineare il senso di soffocamento e ansia dei protagonisti, eppure ne evidenzia anche i successi e la possibilità di riscatto. Sempre in bilico tra meraviglia e claustrofobia, nulla nella serie è lasciato al caso.
Tutto ciò che accade in The Bear, dentro e fuori dalla cucina, dentro e fuori dalla testa del Carmy di Jeremy Allen White, è una tessera di un puzzle confuso, che si ricompone in tutta la sua gloria nell’episodio finale della prima stagione, che non a caso segue una puntata, Review, nella quale nessuno ha tregua. Review, che è costituita quasi esclusivamente da un’unica piano sequenza lunga diciassette minuti, rappresenta l’apice di The Bear, una prova di maturità stilistica e attoriale capace di consacrare la serie in un Olimpo televisivo a cui solo pochissime produzioni sono in grado di accedere. Un episodio perfetto, ansiogeno e claustrofobico ma anche profondamente umano e realistico, una poesia che non va quasi mai a capo, ma che quando lo fa stravolge tutto quanto pensavamo di sapere sulla serialità televisiva.
Perché a The Bear non interessa di essere accattivante o di piacere a tutti, ma piuttosto vuole essere reale, vuole poter portare in scena un dolore e una potenza che non hanno nulla di patinato, che sono il ritratto delle contraddizioni della vita.
Non è un caso allora che la serie FX sia ambientata non in un ristorante stellato, dove Carmy si era abituato a lavorare, bensì in un locale a conduzione familiare, in una paninoteca che persino sotto la guida di due talenti come lo stesso Carmy e l’enfant prodige Sidney fa fatica a ingranare. La vita quotidiana in un locale uguale a mille altri è asfissiante, i ritmi così serrati da non permettere al protagonista di avere tempo per se stesso, tempo necessario per elaborare il lutto straziante che si porta dietro dalla morte di Michael, il fratello che gli ha lasciato il The Beef in eredità. Proprio come nella vita di tutti i giorni, in The Bear la sfera privata e quella lavorativa finiscono per sovrapporsi al punto tale da soffocare ogni spazio vitale e la disperata ricerca di ritagli di tempo per guarire, esprimersi e respirare diventa allora centrale per l’evoluzione della trama.
Con il procedere degli episodi, tra flashback e repentini cambi di prospettiva, l’universo della serie prodotta da FX diffusa da Disney+ si ricompone tassello dopo tassello, e quella claustrofobia che accompagna i protagonisti fin dall’inizio sembra iniziare a dissolversi molto lentamente, lasciando spazio a spiragli di luce che proprio per la loro rarità illuminano prepotentemente tutto quanto accade in The Bear. Vi è allora della meraviglia assoluta in quel finale della prima stagione così pieno di speranza, una parentesi di ottimismo nei confronti del futuro che contraddice eppure non elimina tutto il dolore di cui sono permeate le sette puntate precedenti.
The Bear è un’eccezione nel panorama televisivo contemporaneo, un complicato equilibrio di realismo e originalità che la stanno portando ad avere un successo inaspettato ma meritatissimo, tanto che i critici di tutto il mondo non hanno esitato a definirla la serie dell’anno. Già rinnovata per una seconda stagione, che con tutta probabilità racconterà del tentativo da parte del Carmy di Jeremy Allen White e della Sidney di Ayo Edebiri di portare in vita il loro locale dei sogni, la produzione FX riesce in ciò che solo pochissime serie sono riuscite a fare: sembrare reale, universale ma mai scontata.
The Bear, al tempo stesso soffocante e meravigliosa, racconta di un’esperienza personale affrontando temi che toccano chiunque, dal lutto alla paura del futuro, dal tentativo di nascondere le proprie debolezza all’impossibilità di farlo, dal desiderio di realizzare il proprio sogno al terrore di non riuscirci mai. Ambientata negli spazi claustrofobici di una cucina come tante, la storia di Carmy riesce a imporsi come narrazione universale del dolore e della solitudine, il tutto però senza mai cadere in una facile retorica nichilista e anzi, aprendosi spesso a inaspettati spiragli di luce. E così, raccontando la più semplice delle storie, The Bear ci dimostra che di semplice nella vita non c’è niente e che forse, anche quando siamo convinti del contrario, in fondo vada bene così.