Il sesto episodio della seconda stagione di The Bear fa pendant con il simmetrico episodio della stagione precedente. Due capolavori registici e recitativi che trasmettono tutta l’ansia, l’angoscia, la frenesia del momento. La 2×06 riesce a ripetere l’esperimento, si esalta in un crescendo di tensione insostenibile. Non era facile riuscirci: non si poteva stancamente ripetere l’espediente già utilizzato nella 1×07, quello di un servizio in cucina caotico e snervante. Bisognava inventarsi qualcos’altro. E The Bear ci riesce. Lo fa non solo mantenendo un virtuosismo registico e attoriale di livello superiore ma riuscendo a dare anche profondità di contenuti, aprendo una breccia sui retroscena della famiglia Berzatto, sulla disfunzionalità di un ambiente malato e opprimente. Sull’alienazione.
La tecnica utilizzata è per certi versi in linea con quella della 1×07.
Voci sovrapposte, telecamera pronta a repentini e instabili cambi di direzione e di inquadratura, ambiente saturo di colori, di oggetti, di elementi che sbucano da ogni dove mentre si corre all’impazzata verso l’inizio di una cena di Natale. Il risultato è quel caos esteriore ed interiore che sconvolge ogni personaggio, che martella nella testa loro e nostra come una condanna infernale.
C’è un senso asfissiante di oppressione, le pareti sembrano restringersi, l’ambiente farsi claustrofobico mentre ognuno sprofonda nelle proprie debolezze: Carmy nella paura di non essere accettato, di non ricevere abbastanza credito e di essere oggetto di scherno da parte del fratello, come pure nel senso di colpa per essere “fuggito” da una madre malata e distruttiva. Richie nella sensazione di stare sprecando la sua vita, di non esprimere a pieno il suo potenziale. Michael in quel male genetico che sente dentro di sé, nella disperazione che lo assale senza ragione, lascito di una madre altrettanto malata.
Ogni elemento si fonde e si esaspera nell’altro, viene portato all’estremo da una situazione ingestibile che fa cadere ogni difesa e maschera. E così Michael, Richie, Carmy e tutti gli altri si trovano faccia a faccia con sé stessi, con il loro lato peggiore, con i loro più grandi dubbi e timori mentre tutto attorno il mondo gira all’impazzata, le immagini si offuscano e si mescolano, si intrecciano e sovrappongono al pari del vociare. È un risultato perfetto e quasi insostenibile da vedere (quante volte avete sentito il bisogno di mettere in pausa?). La 2×06 di The Bear spinge a un nuovo livello la tensione del momento, supera la maestria con cui aveva rappresentato il servizio della 1×07. E lo fa in particolare con una forchetta.
Con una semplice, comune forchetta.
Com’è possibile che una forchetta possa prolungare così tanto la tensione, possa renderne insostenibile il peso? Per dieci minuti, da quando Michael impugna quella forchetta viviamo sospesi in un limbo di ansia. È un crescendo silenzioso, fatto di momenti di apparente quiete e nuova tensione, di speranza e disperazione. Ma quella forchetta è sempre lì e non possiamo fare a meno, noi come Stevie (impegnato in una balbettante preghiera), di pensare a quella forchetta. La genialità di questo elemento è sia nella posata stessa che nell’uso che ne viene fatto.
Innanzitutto la posata: la scelta della forchetta è perfetta. Non è totalmente innocua come un cucchiaio che risulterebbe uno strumento di minaccia ridicolo ma non è pericolosa come un coltello che avrebbe velocemente portato a un’escalation incontrollata di violenza e forse a un ferimento già dopo il primo lancio. La minaccia tramite la forchetta risulta una provocazione ideale: tirata la prima forchetta la reazione di zio Lee non può che essere di sorpresa e fastidio. Non è un gesto che desta una risposta violenta ma aumenta la tensione percepita, spinge tutti a sentirsi sulle spine. Così anche la seconda forchetta porta a una reazione che è semplicemente verbale ma che aumenta ulteriormente il livello di ostilità. Lee risponde alla provocazione agendo sulle ferite scoperte di Michael, sui suoi problemi finanziari, sull’incapacità di portare a termine qualcosa di positivo.
E allora ecco che in mano al ragazzo finisce una terza forchetta. A questo punto, solo ora, diventa inevitabile l’ultimatum di Lee: “Lanciami un’altra forchetta e lo rimpiangerai“. Da questo momento tutti sappiamo che se Mike lancerà la forchetta il diverbio si trasformerà in una rissa. Lo sanno gli altri personaggi, lo sanno i due litiganti e lo sappiamo noi. E arriviamo quindi all’altra geniale trovata della forchetta in The Bear: il fratello di Carmy tiene la posata in mano per ben dieci minuti. Dieci interminabili minuti che sono una vera e propria guerra fredda: un innesco appena e il conflitto esploderà in tutta la sua forza distruttiva. Viviamo questi dieci minuti con una spada di Damocle sulla testa, con la “paura della bomba”.
Anche se la bomba in The Bear è nient’altro che una forchetta.
In questi dieci minuti, proprio come nella guerra fredda, si succedono momenti di fortissima tensione, come quando Lee ripete meschinamente: “Sei una nullità“, mettendo a dura prova la delicata psiche di Michael. Ma ci sono anche attimi di maggiore rilassatezza in cui sembra che tutto possa rientrare: l’ingresso in sala di Donna allenta finalmente le ostilità, disinnesca la situazione. Ma Michael quella forchetta non la lascia, come nota anche Stevie nella preghiera di ringraziamento (“Ha ancora la forchetta in mano“, “Ti prego, dà la forza a Michael di non lanciare la forchetta“). Ed è tutta qui la geniale trovata di The Bear. Nella costante consapevolezza che la situazione non può dirsi ancora risolta. Solo così gli autori riescono a mantenere una tensione altissima per tutto questo tempo: giocano con noi, alternando speranza e disperazione e sempre mettendo ben in mostra quella forchetta, quell’ultima forchetta che farebbe precipitare ogni cosa.
E alla fine tutto precipita davvero, la goccia trabocca e la guerra nucleare esplode distruggendo ogni cosa, in un caos che riprende a imperversare e sale, sale, sale fino all’esasperazione di un’auto che sfonda la porta di casa. Per un’intera ora abbiamo così vissuto una situazione esasperante, in cui la nostra tenuta mentale è stata messa a dura prova. The Bear è riuscita a calarci perfettamente nelle emozioni dei personaggi: a quella tavola siamo seduti anche noi e anche noi preghiamo perché Michael non lanci la forchetta. Anche noi siamo sopraffatti, desideriamo solo che tutto finisca: abbiamo la nausea, siamo confusi, ci sentiamo fuori posto, viviamo l’oppressione della situazione. Il tutto grazie a una perfetta costruzione registica a cui si affianca una sceneggiatura altrettanto geniale. È così che anche l’uso di una forchetta diventa una geniale trovata carica di tensione e ansia.