Come accade per molte delle serie odierne realizzate da un’emittente televisiva e non da una piattaforma streaming, c’è voluto un po’ prima che The Bold Type uscisse dalla sordina e si avvicinasse alle luci della ribalta. Anzi, per essere precisi, bisognerebbe dire che questo processo è ancora in corso ed è stato di recente enormemente favorito da Netflix, che non solo ha acquistato il prodotto rendendolo disponibile – quantomeno in Italia – in tre delle sue cinque stagioni, ma lo ha anche spesso e volentieri segnalato agli spettatori già vicini al suo genere.
E quale è il suo genere? Se ci facciamo caso nell’universo dell’intrattenimento c’è stato un grosso gap, di circa 10 anni, di trame incentrate sul glamour del giornalismo newyorkese. Una tematica che per anni aveva affascinato e fruttato moltissimo e che poi, poco a poco, si era andata misteriosamente dileguando.
Jane, Kat e Sutton, le tre protagoniste che osserviamo destreggiarsi tra impegni lavorativi e vita privata nella metropoli per eccellenza, rievocano facilmente le iconiche giovani donne in carriera raccontate da Sex and The City, il quale dopo aver fatto il suo pezzo di storia televisiva, ha chiuso i battenti nel lontano 2004. Ma anche il successo de Il Diavolo Veste Prada, di cui The Bold Type sembra spesso una piacevole versione allungata ed ammodernata, risale al 2007, e il grottesco Ugly Betty, già forse a suo tempo un primo segnale del decadimento di questo filone, si è concluso nel 2010.
Potremmo poi accennare a Gossip Girl – quello originale, non quello dove esiste Instagram – con la sua esaltazione di New York e gli indimenticabili sfarzi che ne mantengono vivissimo il ricordo nelle menti della generazione Z. Dalla memoria non dobbiamo però farci ingannare, non vediamo Blair e Serena dal 2012, e sicuramente non trascorrevano molto tempo in ufficio.
Tuttavia, mentre nel 2017 la sua ideatrice, Sarah Watson, probabilmente si chiedeva se sarebbe riuscita a risuscitare timidamente interesse in un genere ormai in disuso, noi nel 2021 dobbiamo ammettere che The Bold Type è la degna erede di Sex and The City, e, che solo guardandola, ci rendiamo conto di come questo tipo di storia ci era terribilmente mancato. Certo è, che questa creazione esiste esclusivamente grazie a ciò che è venuto prima, ma nessuno vuole farne mistero. La sceneggiatura ne sfrutta le basi e ci ricama sopra in maniera intelligente, perché, dopo tutto, come Il Diavolo Veste Prada era liberamente ispirato alla vita della celebre Anna Wintour, The Bold Type lo è a quella di Joanna Coles, per anni caporedattrice di Cosmopolitan, trasposta nella serie nel personaggio di Jaqueline.
Per questi motivi mi piace definire The Bold Type una serie per nostalgici progressisti. Nostalgica perché ci riporta a una ritualità che ben conosciamo, fatta di dinamiche di ufficio, ritrovi in guardaroba a spettegolare e vestiti presi in prestito per una notte stellare; Progressista, perché dopo averci messo a nostro agio inizia a introdurre con calma e trasparenza tematiche senza le quali non avrebbe ragione di esistere in questo decennio. Infatti è anche il concetto di progressista che è cambiato nel tempo. Guai a dire che Sex and The City non lo fosse nella sua epoca, portando sullo schermo una spregiudicata liberazione sessuale, ma, nel nostro presente, il progresso, soprattutto femminile, non può limitarsi a una battuta volutamente spinta o all’avventura di una notte.
Il progresso che cerchiamo è intersezionale, come il femminismo di cui mira a farsi portavoce la rivista fittizia Scarlet, attorno alla quale si incentrano le vicende della serie.
Qui, troviamo un team principalmente al femminile a occuparsi di temi come la libertà di porto d’armi negli USA, la salute riproduttiva, i maltrattamenti sul lavoro e le discriminazioni razziali, non essendo quasi mai in completo accordo. La bellezza e l’intelligenza di The Bold Type sta proprio nel decidere di non far lasciare mai alle sue protagoniste questioni in sospeso: gli argomenti vengono discussi, osservati da tutti i punti di vista disponibili, e, contemporaneamente, sono le ragazze stesse a mettersi in discussione. Ogni episodio è un bellissimo mini-percorso di crescita personale, per cui lo spettatore non può che provare una certa soddisfazione. Ciò è facilitato anche dalla diversità con cui si sono voluti scegliere e caratterizzare i personaggi, cosa a cui nei primi anni 2000 non si faceva attenzione e grazie alla quale non solo si raggiunge la par condicio, ma è anche possibile ottenere contrasti interessanti.
Un esempio? Kat, la social media manager della rivista, afroamericana per parte di padre, è cresciuta in maniera estremamente privilegiata, molto più delle sue amiche bianche, ed appare a volte quasi inconsapevole di cosa comportino le discriminazioni razziali per la gente comune. Come è ovvio durante gli episodi la si vede prendere maggiore consapevolezza riguardo al mondo reale, ma talvolta continua innocentemente a godere del suo status di benestante a discapito delle sue amiche, dotate di white privilege, ma con le tasche vuote.
E se vogliamo ulteriormente confrontare l’avanguardia di questa serie con la sua capostipite Sex and The City, possiamo stare certi che i dialoghi fra i personaggi femminili supereranno molto più frequentemente il Bechdel Test, ovvero quel test ideato da un’omonima fumettista che punta a rintracciare in opere cinematografiche dialoghi tra donne non aventi come oggetto esclusivo un uomo. Bel colpo ragazze!
Dunque, mentre molti di noi sono in trepidante attesa per reboot dell’iconico Sex and The City, verrebbe da chiedersi: ha senso desiderare il modello vecchio quando si ha già a disposizione quello nuovo?