Se sei un prodotto originale (The Booth at the End) e vedi che il tuo remake ha molto ma molto più successo di te, in genere te ne fai una ragione. Magari l’idea era buona, ottima perfino, ma erano sbagliati i tempi, oppure tu non sei riuscito a svilupparla appieno e qualcun altro sì. Ma se il remake (The Place) è un remake che ingigantisce i tuoi difetti, tradisce le tue idee e ha le uniche parti buone nella copia precisa dei tuoi dialoghi, allora due domande te le fai, e ce le facciamo anche noi.
Benvenuti in una storia lunga quasi cinquant’anni e svariate decine di migliaia di km, che nasce in un corso di psicologia negli Stati uniti degli anni ’60 e finisce in un bar di Roma. La storia di una domanda che decide destini e fortune di una serie tv e di un film apparentemente uguali ma in realtà estremamente diversi. Ma è ora di chiudere questa premessa e di iniziare le presentazioni: in due luoghi e tempi diversi del mondo stanno aprendo due bar, entrambi con all’interno un ospite speciale, pronto ad accogliere i suoi clienti…
Nord America, 2010: nel tavolo in fondo (The Booth at the End, da qui il nome della serie) di una tavola calda, un uomo accoglie uno alla volta i suoi clienti, previa esibizione di una frase d’ordine: “So che fanno degli ottimi panini al pastrami qui”. L’uomo, di cui non sapremo mai il nome, è un mercante di desideri: non c’è richiesta che lui non possa esaudire, anzi, far sì che avvenga, (“Io non realizzo desideri, io offro possibilità”) ma in cambio vuole dal cliente lo svolgimento di un incarico ben preciso. Le regole dell’accordo sono tanto precise quanto ferree:
- Il desiderio da realizzare può essere sia materiale (es: soldi, una relazione) che immateriale (es: la salute di una persona cara);
- Per ogni desiderio da esaudire, c’è un prezzo da pagare. In questo caso il prezzo è un incarico che l’uomo al tavolo in fondo propone al cliente di svolgere. Svolto l’incarico, il desiderio sarà esaudito;
- L’incarico, scelto tra le pagine di un diario da cui l’uomo non si separa mai, non è derogabile, non è modificabile e il nostro mercante non potrà dare alcun tipo di aiuto nel suo svolgimento. La conseguenza è lo scioglimento dell’accordo: il mercante non impone nulla, al massimo propone (la sua frase chiave è “Nessuno ti obbliga!”); l’azione svolta sarà sempre una libera scelta del cliente.
- Un cliente può esprimere più di un desiderio, ma accettare l’incarico per un desiderio alla volta. Ogni nuovo desiderio espresso annulla l’accordo precedente;
- Durante lo svolgimento dell’incarico, il cliente dovrà tornare periodicamente al tavolo in fondo della tavola calda e fare rapporto al nostro uomo, raccontando nei dettagli tutte le emozioni che sta provando. Dettagli che saranno riportati dall’uomo nel succitato diario.
Fin qui sembra facile no? Peccato che manchi un piccolo particolare: ogni compito che il nostro mercante affida è un reato, o comunque qualcosa che si configura come uno shock verso il cliente: uccidere, rapinare una banca, far esplodere una bomba in un posto affollato e così via.
Da questo scaturisce la questione fondante di tutta la serie. “Sono convinto che le persone possano fare molto più di quanto immaginano”, dice il nostro uomo a una sua cliente nella 1×01. Ma quali limiti siamo disposti a superare per vedere realizzato ciò che abbiamo davvero nel cuore?
L’idea di base di The Booth at the End è eccellente e coadiuvata da alcune scelte che conferiscono mistero e densità alla trama. La prima è quella di far svolgere il tutto in un’unica ambientazione, appunto quella del tavolo in fondo. Come conseguenza, ogni azione non avviene sulla scena ma può essere rivissuta solo attraverso il racconto dei clienti. La seconda è la scelta del cast, con un perfetto Xander Berkeley (chi meglio di John il Rosso di The Mentalist per interpretare un personaggio ai confini della moralità?) a fare da protagonista. La terza è la gestione delle trame che parte da una base semplice semplice: il nostro uomo non esita a mentire al suo cliente se necessario; così solo il pubblico sa, ad esempio, che alcune missioni si scontreranno (es: la stessa persona dovrà essere uccisa da un cliente ma protetta da un altro cliente) e quindi sarà impossibile che vengano tutte portate a termine.
Ma è davvero l’incarico l’obiettivo finale del nostro uomo? In una sorta di macabra serendipità, ogni cliente troverà il suo preciso destino in un punto esatto del percorso – e non per forza al traguardo – e il pubblico seguirà ipnotizzato questa caccia al tesoro in cui tutto è allo stesso tempo inaspettato e deciso.
Il mercante si comporta letteralmente come un prestigiatore. Tutto di lui è volto ad affascinarci: il tono di voce, la struttura delle frasi (secche, ieratiche, brevi, mai appassionate, sempre sul punto e attente a non rivelare mai più di ciò che si deve) e tutto il non detto contribuisce a rapirci. Il nostro uomo è intoccabile, inscalfibile, il suo diario resterà per sempre un mistero, come il vero motivo per cui propone questi accordi.
L’ultimo pezzo di questa magia è però dato dall’ambientazione creata. Il tavolo in fondo infatti si presenta quasi come un “ufficio” separato rispetto alla tavola calda: nessuno disturba l’uomo e il suo cliente, nessuno è incuriosito dai loro dialoghi, nessuno chiede, nessuno cerca di capire perché una persona all’improvviso urla, si commuove o dà di matto, come se ci fosse una cortina di fumo che proteggesse il protagonista dal mondo esterno.
Cortina che sembra dissiparsi, però, davanti a Doris, la cameriera della tavola calda che di tanto in tanto si rivolge al mercante più con affetto che con curiosità: e se fosse soltanto una cliente che non è destinata ancora a sedersi?
Gli ingredienti per una serie di elevatissima qualità ci sono tutti, e allora cos’è che non funziona in The Booth at the End? Perché se ne parla pochissimo?
In realtà il motivo è uno: nel tentativo di nascondersi ai suoi clienti, il mercante finisce per nascondersi anche al pubblico. Manca, insomma, quel filo rosso che lo collega alle sue “vittime” e che quindi ci permetta di entrare davvero in empatia con lui. Non ci bastano le frasi ad effetto sul suo ruolo (“Lei è un mostro! “No, io aiuto i mostri!” lo scambio meraviglioso nella 1×05): noi vogliamo capire perché fa quel che fa, per lasciarci andare. Siamo rapiti, sì, ma non fino in fondo, ci resta sempre un tarlo dentro.
Eppure qualcuno questa risposta ce l’aveva data. Ricordate quando vi parlavo di una frase e di un corso di psicologia degli anni ’60? Ebbene, eccoci arrivati a quel punto.
A quel corso di psicologia americano il docente propose alla classe un gioco, una specie di piccolo test: “Se servisse a contribuire realmente alla pace nel mondo, sareste disposti a camminare per le strade di Broadway, a New York… nudi?”. Una delle donne della classe tornò a casa e racconto di questo gioco al marito, che sentì improvvisamente il suo cervello attivarsi. E se il cervello è quello di Richard Matheson, uno dei più importanti scrittori di fantascienza e sceneggiatori americani (avete presente “Io sono leggenda” con Will Smith? Ecco, l’ha scritto lui!) il risultato è un piccolo gioiellino, chiamato The Box, diventato poi una puntata della serie tv Ai confini della realtà e poi un film qualche decennio dopo, nel 2009.
In occasione dell’uscita del film, fu ristampata un’antologia dei racconti di Matheson, intitolata proprio The Box, in cui lo stesso autore ci tenne a precisare la domanda che sottintendeva al suo racconto (di cui non vi sveleremo la trama ma, fidatevi, ha molto a che fare con The Booth at the End) e che suonava più o meno così: “Sacrifichereste la vostra dignità in cambio di un preciso scopo?“.
Dignità, ecco la parola chiave! Il nostro uomo gioca per 10 puntate con il concetto di dignità, solo all’apparenza oggettivo, ma in realtà estremamente variabile per ognuno di noi. La vera sfida di ogni cliente è quella di abbattere il muro della propria dignità: per questo l’incarico di restare incinta sarà dato, per esempio, a una suora o quello di uccidere a un rispettabile padre di famiglia.
Ma nelle parole del mercante non c’è traccia di dignità, ed è quello che lo rende definitivamente mancante di un pezzo, quel pezzo che avrebbe convinto il pubblico a ricordare The Booth at the End come una serie tv degnissima, addirittura un piccolo caso di studio.
E allora cosa cambia nel film di Paolo Genovese, The Place, che purtroppo equivoca la serie snaturandola? Cambia la tempistica e l’eredità. Se la serie madre nasce fondamentalmente come un fungo, il film di Genovese arriva sul traino dell’enorme successo di “Perfetti sconosciuti”, uno dei film italiani più influenti nell’immaginario degli ultimi anni.
Allora Genovese, per sfruttare l’onda, riprende l’idea di The Booth at the End, attirato dall’ambientazione in un solo luogo, ci mette la sua Roma (e il bar The Place che esiste davvero e dà il nome al film) ci piazza i suoi attori feticcio (Mastandrea, Giallini, Alba Rohrwacher, tra l’altro tutti presenti in Perfetti Sconosciuti), decide di rendere umano e molto più debole (addirittura noi possiamo vedere cosa c’è scritto sul quaderno!) il nostro secondo mercante e imbastisce una storia in cui il vero motore non è la dignità ma l’amore, di fatto snaturando tutta la portata psicologica dell’idea originale.
Risultato: moltissime nomination nei premi italiani di settore ma nessuna vittoria, perché si scopre presto il bluff e il risultato è una storia come tante, una cessione al mercato che la serie non meritava.
Buffo però: alla fine il nostro mercante è stato quindi comprato, e neanche a un prezzo troppo alto. Ritornando alla parola chiave di Matheson, non ha avuto la dignità di sapersi vendere e questo è un errore che, oggi come oggi, neanche una richiesta al diavolo (?) può cancellare.