Guardiamo i palazzi, è questo che sembra volerci dire The Comey Rule. Guardiamo il marmo delle istituzioni, il cemento armato sul quale abbiamo costruito il concetto di democrazia. I palazzi restano, sopravvivono alle intemperie, ai decenni che passano, agli inquilini, agli scandali, ai presidenti. Guardiamo i palazzi: solo così ci renderemo conto di quanto tutto il resto sia superfluo. Tutto passa, solo gli edifici restano saldi a terra. E in quest’ottica, persino Donald Trump può risultare un semplice incidente di percorso. Una parentesi, in uno studio Ovale che si svuota e si riempie, ma che resta sempre lì, immobile.
The Comey Rule è la miniserie in due puntate di Billy Ray, andata in onda negli Stati Uniti il 27 e 28 settembre su Showtime. In Italia è sbarcata invece su Sky Atlantic, con prima visione nazionale il 12 e 13 ottobre.
Fa la sua comparsa sullo schermo in un periodo nient’affatto banale. Alla vigilia delle elezioni presidenziali, questa serie offre un quadro non proprio benevolo della figura di Donald Trump, della sua elezione nel 2016 e dei suoi tormentati rapporti con alcune figure chiave della scena pubblica americana. Lo show è tratto da A Higher Loyalty, firmato dall’ex direttore della Federal Bureau of Investigation James Comey. Il libro fu pubblicato nell’aprile del 2018, pochi mesi dopo il siluramento di Comey dal vertice dell’FBI, e ci fornisce un racconto dettagliato e preciso delle indagini dei federali durante la campagna elettorale del 2016 e del delicato rapporto del direttore con il neoeletto Trump. Un resoconto per niente clemente nei confronti del Presidente, alla vigilia delle elezioni che decreteranno la sua sconfitta o la sua rielezione.
The Comey Rule parte dalle indagini sull’operazione Midyear, il fascicolo aperto dai federali sulla candidata Hillary Clinton, che durante i quattro anni in cui fu segretario di Stato per l’amministrazione Obama, avrebbe usato il suo indirizzo di posta elettronica privato anche per questioni di lavoro, cancellando successivamente tutte le e-mail e ripulendo i server. Le indagini non portarono ad individuare nessun elemento penalmente rilevante, ma l’apertura del fascicolo – che fu chiuso e poi riaperto alla vigilia delle elezioni, salvo poi essere richiuso definitivamente – ebbe comunque un peso non indifferente nella campagna elettorale della candidata democratica.
La prima puntata (Night One) è dedicata proprio alla questione delle e-mail della Clinton e alle decisioni assunte in merito dal direttore Comey. Molti negli Stati Uniti, dopo la vittoria di Trump, gli addossarono le colpe della disfatta dei democratici. Un fardello che James Comey si è dovuto portar dietro negli anni successivi. E che probabilmente continua a trascinarsi ancora oggi.
The Comey Rule vira poi verso il Russiagate e il grande sfavorito che si è preso la Casa Bianca.
Lo show, che è quasi una docu-fiction dettagliata dei fatti, deve raccontare tutto, senza censure e senza strappi. Altrimenti la storia risulterebbe poco credibile e contraffatta. Donald Trump, interpretato da Brendan Gleeson, è presentato come un individuo rozzo e viscido, a tratti anche incapace e incompetente. Netto è il contrasto con il suo predecessore Obama (Kingsley Ben-Adir), come se si volesse calcare la mano sulla netta contrapposizione tra due modelli di leader tra loro profondamente antitetici.
Ma il vero antagonista del presidente è proprio Comey, interpretato da Jeff Daniels.
La serie ci sbatte in faccia la dicotomia bene-male, fin troppo ben definita. Le differenze tra i due personaggi sono totali: lo si intuisce dalle parole, dai toni, dalle espressioni facciali, dal diverso tipo di sguardi che attirano su di loro, dai tratti fisici. E soprattutto, nel rapporto con i sottoposti. Cordiale fino all’affabile Comey, grezzo e scortese Trump. Che ne vanga fuori un racconto troppo semplicistico della realtà?
La serie fa continui richiami al concetto di giustizia. Intesa non solo come inchieste giudiziarie, fascicoli in mano ai procuratori. Ma giustizia come termine assoluto, valore irrinunciabile. I riferimenti sono espliciti, ma anche allusivi, come le ricorrenti inquadrature sulle scritte incise nel marmo degli edifici istituzionali – Il luogo dove si fa giustizia è un luogo sacro o anche Dove finisce la legge inizia la tirannia – segno di una strisciante volontà moralistica, oltre che documentaristica, degli sceneggiatori.
D’altronde, The Comey Rule offre una visione amara della realtà.
“Lei crede che essere nel giusto la salverà, ma si sbaglia”. E infatti James Comey viene prima plagiato e circuito dal presidente, poi sbattuto fuori. Seguendo, in questo senso, la triste sorte degli uomini di principio che soccombono dinanzi a una realtà spiacevole e spregiudicata. Ma come ne esce Donald Trump? Male, se non malissimo. In un punto, lo si dipinge persino come un cataclisma paragonabile alla mafia – che la mia anima bruci se mai io debba tradire Cosa nostra.
Malgrado l’ottima prova interpretativa di Gleeson, il presidente degli Stati Uniti rimane inarrivabile. Anche la camera sembra essere a disagio col suo profilo: le inquadrature sono spesso di sbieco, dall’alto o dal basso, come a volerne mettere in risalto i tratti più goffi e sgarbati. O ancora da dietro, per dare alla scena quei tratti di triste solennità che spetterebbe alle figure importanti della storia.
The Comey Rule non è certo un bel regalo per Donald Trump alla vigilia delle elezioni. Con questa serie, Comey si è preso la sua rivincita. Che sia un modo di togliersi di dosso il peso di aver inciso sulla campagna elettorale del 2016?
Scherzi a parte, questa serie ha avuto e avrà un impatto nettamente maggiore negli Stati Uniti rispetto al resto del mondo. Il pubblico americano ha più dimestichezza coi fatti narrati. Nonostante l’inevitabile tono un po’ House of Cards di alcune scene, The Comey Rule si attiene ai fatti con piglio documentaristico, sacrificando qualcosa in termini di profondità. Da questa parte dell’Atlantico, per poterla apprezzare appieno, è necessario avere una conoscenza minima dei fatti narrati.