Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su The Crown
Tutto ciò che ha un inizio ha una fine. Immancabilmente. Niente e nessuno può sottrarsi a questa banale regola, molto spesso messa in disparte per le sue derivanti, difficili implicazioni filosofiche. Nemmeno una delle più avvincenti e coinvolgenti serie storiche e drammatiche di sempre.
Così, anche The Crown è giunta al termine. Da qualche giorno, infatti, il gigante dello streaming, Netflix, ha rilasciato gli ultimi sei episodi di questa serie britannico-statunitense che dal novembre del 2016 ha appassionato milioni di telespettatori di tutto il mondo.
Raccogliamoci un momento, con la dovuta partecipazione, per rendere omaggio a questa lunga, sorprendente epopea che ha raccontato, con un certo palese affetto, la vita pubblica e privata di Sua Maestà la Regina Elisabetta II descrivendo il suo lungo regno, dal 1947 ai giorni nostri. Ci mancherai, The Crown. Lunga vita a te!
Bene. Dopo aver giustamente ossequiato una serie che ha ricevuto quasi cinquecento (500!) candidature vincendo, per ora, oltre centoquaranta (140!) premi, tra i quali ventun Emmy, adesso parliamone un momento cercando di tirare le somme. Perché questa saga dai risvolti quasi epici negli ultimi tempi ha ricevuto una quantità di critiche spesso spropositate. E quasi tutte legate al personaggio di Lady Diana che, troppo spesso, è stato additato come unico colpevole di un calo di qualità della serie, in particolare delle ultime stagioni.
Come da titolo la Principessa del Galles è stato un grattacapo. E su questo siamo tutti d’accordo. Ma la serie è davvero sprofondata in un baratro perdendo, in parole povere, tutta la sua maestosa bellezza? Un dilemma che ha colpito anche noi di Hall of Series. In questo articolo cercheremo di darvi una risposta onesta esaminando, il più possibile in maniera oggettiva, se la presenza di Lady D abbia portato a un reale declino qualitativo di The Crown o se le critiche ricevute, sia da parte del pubblico che dagli addetti ai lavori, siano, forse, un po’ (troppo) eccessive.
Fin dal suo esordio The Crown è stata capace di catturare l’attenzione del pubblico. L’impressione avuta, immediatamente, è stata quella di esser di fronte a un prodotto che avrebbe alzato di almeno un paio di tacche il livello qualitativo dei prodotti seriali non soltanto made in Netflix. Se non un capolavoro poco ci manca, insomma.
Esplorando la vita della famiglia reale britannica, con un’attenzione particolare ai dettagli storici e drammatici di un’epoca ormai lontana, Peter Morgan ha voluto omaggiare la monarchia alla quale, pur con qualche critica, è tanto devoto. Del resto il drammaturgo e sceneggiatore inglese, insignito dell’onorificenza di Commander of the Most Excellent Order of the British Empire nel 2016 per l’eccellenza nella drammaturgia teatrale, si era già distinto nello scrivere la sceneggiatura di un altro affresco reale: The Queen, del 2006, con la meravigliosa Helen Mirren vincitrice di un premio Oscar come miglior attrice protagonista nei panni della Regina Elisabetta.
Già per questo film Peter Morgan ha dovuto fare un duro, lungo lavoro di ricerca. Ma con The Crown si è dovuto superare trovandosi di fronte a versioni dello stesso evento completamente differenti, soprattutto politicizzate e distorte per difendere questa o quella figura storica realmente esistita.
“Se si vuole raccontare la storia di qualcuno devi fare i conti con le cose belle e quelle meno belle“, dice l’ideatore di The Crown. Così è stato fatto quando si è trattato di parlare di Lady Diana, interpretata da Emma Corrin nella quarta stagione e da Elizabeth Debicki nella quinta e sesta. Con un certo garbo e una certa attenzione, gli autori hanno voluto raccontare la storia più o meno conosciuta di una principessa che ha sconvolto il mondo, nel bene e bel male.
La personalità di Diana Spencer ha diviso il mondo tra chi l’ha amata, venerata e idolatrata e chi, invece, non è riuscito ad accettarla. Dire che sia stata un personaggio divisivo è davvero un eufemismo. La potenza scaturita dal suo modo di essere è stata così forte da travolgere ogni cosa con la quale è venuta a contatto rischiando persino di far naufragare la monarchia inglese.
Il suo ingresso in scena in The Crown non passa certo inosservato e la serie da interessante affresco storico, capace di stimolare la curiosità raccontando, per esempio, la nebbia dovuta all’inquinamento, la tragedia di Aberfan, o l’ordine cronologico dei successori di Churchill, fino alla Lady di Ferro, diventa come la prima pagina di uno dei tanti, famosi, tabloid inglesi. Intendiamoci: non è che l’amore infelice tra Margaret (la meravigliosa Vanessa Kirby) e Peter Townsend (Ben Miles) fosse meno degno di pettegolezzo. Erano, semplicemente, altri tempi.
Del resto, Lady D era destinata a diventare Regina al fianco di Carlo e il loro matrimonio degno delle migliori fiabe. Ma certo, se fino alla quarta stagione il tema era concentrato sulla Corona, da lì in poi il focus si è spostato sulla storia d’amore più tormentata dello scorso secolo.
Eppure che altro si sarebbe potuto fare? Estromettere la Principessa del Galles? Un’icona tra le più popolari del XX secolo? Una star? Un mito? Una leggenda pop? Ovviamente no. La vera Lady D è stata un personaggio di notevole fascino sulla cultura popolare e la sua storia ha catturato l’immaginazione di milioni di persone in tutto il mondo. La sua introduzione in The Crown era perciò inevitabile data la sua influenza sulla storia della famiglia reale britannica.
Molte voci critiche hanno sostenuto che l’attenzione eccessivamente dedicata a Diana abbia diluito la narrativa principale rendendola banale e superficiale. Altre voci, invece, hanno trovato eccessiva la rappresentazione della vita di Lady D, affermando che la serie abbia barattato la sua parte storica in favore del dramma sensazionalistico.
Che nel corso delle puntate ci sia stato un cambiamento è palese. Ma questo è certamente dovuto a un mutamento generale della realtà quotidiana. The Crown è talmente ben fatta che si percepisce il passaggio da un’epoca all’altra. E le ultime due stagioni non sono state da meno. Il racconto non è si diluito, semmai è diventato più concentrato e puntiglioso. E non c’è stato alcun baratto. Semplicemente quello che viene narrato rispecchia ciò che in effetti accadeva all’epoca: un interesse quasi morboso e costante sulla vita privata di una giovane donna.
Si sarebbe potuto trattare diversamente il personaggio? Certamente. Si potrebbe persino azzardare che si sarebbe dovuto trattarlo diversamente. Ma come sempre accade in fase creativa vengono fatte delle scelte che portano a dei risultati. Si è deciso di tralasciare quasi del tutto l’impegno umanitario verso i più deboli, come i malati di lebbra e di AIDS, i bambini e gli anziani, gli animali toccando soltanto di sfuggita tutto l’impegno nei confronti della lotta contro le mine antiuomo, preferendo concentrarsi quasi esclusivamente sull’aspetto sensazionalistico.
Una scelta certamente non semplice che ha riaperto ferite non ancora chiuse nonostante siano passati poco più di venticinque anni dalla sua morte. Una scelta apparentemente semplicistica ma che invece risulta necessaria e molto coraggiosa allo stesso tempo. Poiché la sua storia è intrinsecamente legata alla famiglia reale ciò che lo spettatore vede sullo schermo è una chiara e precisa analisi dei cambiamenti memorabili di quell’epoca. Diana funziona come chiave di lettura di un mondo che si proietta verso il Duemila. Un mondo dove la pressione mediatica diventa insopportabile (memorabile, per esempio, l’episodio dei due fotografi); dove i problemi di salute mentale non sono più uno stigma; soprattutto un mondo dove la donna si è emancipata e non vuole più adeguarsi al ruolo che le impone la società.
Certo, le due scene dove il fantasma di Diana si presenta a Carlo e alla Regina sono piuttosto cringe, nulla da dire. Così come lascia un grande dubbio la figura di Al-Fayed padre, che trama come un’eminenza grigia alle spalle del figlio. Nonostante le cadute di stile, The Crown dimostra di brillare ancora come una delle meravigliose pietre incastonate sulla corona reale.
La serie di Peter Morgan non ha perso il suo fascino. Semmai ne ha guadagnato, in maniera quasi paradossale. Perché mano a mano che il racconto si avvicina ai giorni nostri il lustro della famiglia reale sembra venir meno mentre aumenta, invece, quello globale della serie. Giudicare perciò un crollo quello delle due ultime stagioni di The Crown è un passo falso che rischia di far cadere in una trappola molto ben architettata lo spettatore.
Prova ne è il fatto che non sono venuti lo sfarzo dei costumi, le meravigliose location e, soprattutto, non sono mancate le prove attoriali di grandi, meravigliosi professionisti. In primis quella di Elizabeth Debicki, proprio nei panni della tanto vituperata Lady D, che quando piega la testa lateralmente e ti guarda con i suoi occhi blu ti lascia letteralmente senza fiato per la sua bravura.
The Crown non ci ha delusi e nemmeno traditi. Le critiche ricevute sono state certamente eccessive poiché la sua grandezza, in termini di qualità, è rimasta inalterata nel corso di queste sei stagioni. Semplicemente, si è adeguata ai tempi storici che raccontava prendendosi, proprio perché grandiosa, il rischio di perdersi per strada.
Ognuno di noi può trarre il giudizio che ritiene più giusto, sia chiaro. Ma non va dimenticata una cosa fondamentale. Cioè, che quando un racconto suscita tanta emozione vuol dire che ha saputo toccare corde molto profonde. Non sempre quello che viene fuori può essere piacevole. Ma fa sempre parte della nostra natura umana.
The Crown è stata emozionante. Dal primo all’ultimo istante. Ci ha raccontato aneddoti che magari non conoscevamo, alcuni piacevoli, altri meno. Ci ha tenuto compagnia per sette lunghi anni andando oltre il semplice compito di intrattenerci. In un mondo seriale sempre di corsa, dove le puntate si susseguono una dietro l’altra The Crown si è presa il suo tempo. E come una regina ha regnato e fatto la Storia. Quella con la esse maiuscola. Lunga vita a lei!