Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su The Crown
La quinta stagione di The Crown non è piaciuta quanto le prime quattro: a oltre due settimane dalla messa in onda su Netflix, è un dato ormai consolidato. Persino incontestabile, perché riscontrabile nella stragrande maggioranza dei commenti dei fan e delle recensioni critiche provenienti dalla principale testate specializzate. Nessuno (o quasi) l’ha accolta in termini davvero negativi, ma altrettanti non l’hanno analizzata e vissuta col trasporto col quale era stata salutata in precedenza. The Crown era, è e sarà sempre uno dei migliori period drama della storia delle serie tv, meritevole dell’impegnativa definizione di “capolavoro”, ma ci sono tanti ma. Nella quinta stagione, come mai era accaduto finora. The Crown, per la prima volta, è stata messa in discussione, fino in fondo. Non solo sul piano delle scelte autoriali, quelle sì, più che divisive anche negli annate precedenti (e ci mancherebbe, vista la delicatezza dei temi trattati), ma su un piano più strettamente qualitativo. Non si tratta certo di una brutta stagione e sarebbe un errore madornale escluderla dalla top ten dedicata alle migliori serie tv del 2022, però è mancato qualcosa rispetto agli standard straordinariamente alti ai quali ci aveva abituato. Sì, ma cosa? Beh, questo è un domandone. Perché non è piaciuta davvero quasi a nessuno, eppure raramente si è riusciti a individuarne la motivazione.
Nessuno, in sostanza, sa perché la quinta stagione di The Crown funzioni meno bene delle altre. E allora proviamoci anche noi, a dare una risposta.
Al di là di ogni possibile valutazione sui temi affrontati nell’arco della stagione e sulla resa scenica della narrazione (ne abbiamo parlato a lungo nella nostra recensione, la trovate qui), sembra sia mancato un elemento su tutti. Sottile, poco appariscente tra gli immensi fatti ricostruiti. Eppure decisivo nell’aver fatto di un grande romanzo storico una delle migliori serie tv dell’ultimo lustro: il cuore. Ecco, questa è una potenziale chiave di lettura che nessuno pare aver finora offerto, persi come eravamo tra le revisioni del divorzio di Carlo e Diana e l’inadeguatezza di alcune scelte effettuate in sede di casting: la quinta stagione di The Crown non ha davvero un cuore che batte. E aggiungiamo, non senza audacia: nella quinta stagione di The Crown manchiamo noi, dopo esser stati messi alla porta e tenuti all’esterno di Buckingham Palace. In che senso? Spieghiamoci meglio, e per farlo iniziamo col dare una risposta a un quesito essenziale: perché The Crown piace tanto? Ma soprattutto: perché piace tanto a un pubblico così trasversale, meno targettizzato di quanto si potrebbe pensare a proposito di un’opera del genere? La risposta, per certi versi, l’avevamo già data qualche settimana fa, in un approfondimento dedicato al rapporto tra noi stessi e la serie (lo trovate qui): The Crown è l’unico vero anello di congiunzione tra il nostro mondo e quello delle fiabe.
Una fiaba contemporanea, anacronistica. Storica, nell’essere nostra. Una di quelle che sembrano esser state scritte per regalarci un sogno incastonato dentro un incubo e prospettive di vita suggestivamente infantili. Vissuta sospesi in un tempo indefinito e infinito, in un non luogo, attraverso delle persone vere che incarnano in qualche modo l’essenza di personaggi che avevamo sempre avuto in testa, nella gioia e nel dolore. Una Regina, prima ancora di Elisabetta. Un Principe, prima ancora di Filippo. Una corona magica, prima ancora della Corona sistemica. Allo stesso, però, avevamo sognato i personaggi mentre capivamo le persone, le avevamo sentite vicine. Le avevamo amate e detestate come se fossimo diventati, per un attimo, parte della loro famiglia. Inserite in dinamiche assurde eppure essenziali, riconoscibili. Persino semplici, immediate. All’irrealistica narrazione di una serie tv che non si è mai posta in alcun modo posta l’obiettivo di raccontare una storia vera e assumere dei tratti documentaristici, s’era legato il forte realismo di una storia in cui ognuno di noi poteva riconoscersi, seppure all’interno di un contesto unico e inimitabile. Avevamo trovato un posto a corte. Eravamo diventati dei membri attivi, in una particolarissima parentesi della nostra vita.
The Crown, in sostanza, era riuscita a centrare un obiettivo narrativo pressoché irraggiungibile da chiunque altro: seppure con le dovute distinzioni (a partire dall’intera parabola di vita della povera Diana, fin dalla quarta stagione), aveva universalizzato una storia peculiare attraverso delle prospettive radicalmente individuali. Una di quelle che di universale, sulla carta, non aveva davvero niente. Aveva legato la storia alla Storia, raccontato una fiaba attraverso noi stessi e i nostri sogni, senza esser per questo mai in alcun modo retorica né didascalica. Se da una parte la Royal Family dominava la scena, dall’altra incarnava un riflesso proveniente dagli angoli più reconditi della nostra storia. Quasi fossero degli intrusi, degli alieni catapultati un po’ per caso nel nostro mondo. Esemplari e imperfetti, dentro una visione onirica. Suggestioni tragiche o incantevoli di vite vissute da altri, delle quali c’eravamo in qualche modo appropriati. Il backstage aveva conquistato uno spazio vitale sul palcoscenico, mentre gli intrecci tra la Storia, lanciata a ritmi forsennati verso il futuro, e un’istituzione fuori dal tempo, del tutto allergica a ogni forma di cambiamento, davano vita a una saga straordinaria e irripetibile. Poi, però, qualcosa è cambiato. Ed è cambiato al culmine di un percorso che ha attraversato le stagioni, progressivamente sempre più cupe, per poi assorbire tutto il resto. Il quinto atto di The Crown è altro. Noi non ci siamo più, siamo stati esclusi: la barriera tra gli spettatori e la Corona, anche se presente fin dal primo momento, non è più un muro fatto di vetro, trasparente e capace di mostrarci un mondo in cui esserci e non esserci allo stesso tempo, ma un muro vero. Fatto di mattoni e cemento armato. Una barriera, insormontabile. Un tradimento del patto implicito che questa storia aveva fatto coi propri spettatori.
Sia chiaro, però: non è una colpa di Peter Morgan e i suoi autori, in alcun modo. Al di là di alcune scelte rivedibili nella lettura delle dinamiche che hanno portato Diana e Carlo a uno dei divorzi più clamorosi e dolorosi di sempre, gli autori di The Crown hanno dimostrato ancora una volta di essere dei grandissimi autori. A tratti irraggiungibili anche nel corso della quinta stagione. Ma era inevitabile dover snaturare in quale modo la serie. Rientrava nella logica delle cose, dettata dal tragico decennio vissuto dalla famiglia reale negli anni Novanta. È la storia, quella vera, irreale ma allo stesso tempo ancorata a un’indispensabile cronaca degli eventi, ad averci tradito. La fiaba ha ceduto il passo alla disillusione e all’inquietudine dei protagonisti della vicenda. E i personaggi che avevamo amato e detestato con la medesima intensità sono stati fagocitati dalle persone, reali. In carne e ossa. Tanto da non aver più la statura necessaria per trasfigurarsi nell’universalità del racconto ed esser inghiottiti da una storia che ognuno di noi, o quasi, ha in qualche modo vissuto in prima persona. Incluso chi vi scrive: in quel maledetto 31 agosto del 1997, data della tragica morte di Diana, aveva otto anni, pochissimi. Eppure ricorda nitidamente quelle terribili giornate che accompagnarono l’incidente e la dipartita di una persona che era parte della propria quotidianità. Per non parlare di chi, al tempo, aveva un’età ben più matura: ognuno aveva e ha un ricordo personale del periodo, vivido anche dopo venticinque anni.
La realtà ha quindi soffocato ogni potenziale spazio vitale occupabile dalla fantasia più sfrenata. Dai sogni, dall’universo parallelo in cui avevamo vissuto le prime quattro stagioni di The Crown. Ed è, allo stesso tempo, una realtà complessa, divisiva, una ferita ancora aperta. Una storia che gli autori non hanno potuto raccontare fino in fondo perché è ancora parte della storia che stiamo vivendo oggi, nelle giornate in cui la Regina Elisabetta ci ha appena lasciato e Carlo è divenuto re da pochissimi mesi. Insomma, non si poteva in alcun modo universalizzare questa storia e farla nostra. Agli autori non è restato altro che metterci alla porta, escluderci. Ricostruire la storia attraverso una cronaca più o meno fedele degli eventi e privarci di ognuno dei personaggi in cui c’eravamo in qualche modo immedesimati. Questa non è più la storia fiabesca di re, regine, principi e principesse, ma di Elisabetta, Filippo, Carlo, Diana e tutti gli altri. La loro storia, e basta. Raccontata a metà, oltretutto. Non la viviamo più dentro il palazzo ma fuori, come avevamo sempre fatto. Non è più la storia di The Crown, ma una storia che ognuno di noi conosceva già perfettamente. Filtrata attraverso un’infinità di vincoli che hanno tarpato le ali a ogni potenziale aspirazione creativa e artistica. Una storia imponente, ingombrante. Ingombrante al punto da togliere spazio a tutto il resto, o quasi. Agli anni Novanta nella loro essenza più pura, al di là della bolla in cui siamo stati chiusi con Carlo e Diana.
Della vera The Crown è rimasta un’ombra, talvolta sbiadita. Sempre valida, validissima. Bellissima, tra le più belle in circolazione. In alcuni episodi specifici (il terzo, il sesto e il settimo in particolare) del tutto all’altezza delle quasi irraggiungibili vette di questa straordinaria serie tv, ma di rado fedele al percorso che aveva fin qui affrontato. Quasi in standby, per certi versi. In attesa di qualcosa, di una svolta mai arrivata. Per ora. Perché questo non è l’atto finale di The Crown, ma il penultimo. E la sesta stagione di The Crown, quella finale, potrebbe portarci a rivedere diversamente, a posteriori, anche la quinta. Come se fossero due parti distinte di un unico racconto da leggere insieme, organicamente. In cui potremmo rivedere i nostri personaggi, oltre le persone. Attraverso un soggetto che sulla carta potrebbe essere meno controverso (una volta superata la morte di Diana) e restituirci un barlume di luce attraverso William e Kate, dopo averci immerso nell’oscurità dei tempi più bui della Corona britannica tra un amaro sorriso e una timida lacrima versata. Fino a ritrovarci ancora, per un’ultima volta, tra le righe di una fiaba sui generis. Riportarci dentro Buckingham Palace, restituendoci il vero capolavoro che ha illuminato le tortuose strade di Netflix negli ultimi cinque anni. Vogliamo crederci. Per certi versi ne abbiamo persino bisogno. Oggi come non mai.
God Save The Crown.
Antonio Casu