Dopo più di un anno di attesa, Netflix ci ha riaperto le porte di Buckingham Palace, catapultandoci nuovamente tra le stanze da sogno, gli intrighi e le beghe familiari dei Reali d’Inghilterra. Lanciata ufficialmente sulla piattaforma il 17 novembre, la terza stagione di The Crown ha letteralmente rapito pubblico e critica con storyline sempre più avvincenti e un cast nuovo di zecca. Che, con interpretazioni magistrali, ha saputo conquistare anche i fan più reticenti o, semplicemente, affezionati agli attori che per due anni avevano abitato le vite della Regina Elisabetta, del Principe Philip e dell’estrosa Principessa Margaret.
Quella del recasting, d’altronde, non era mica una novità.
Sin da quando nel 2014 era stato annunciato il progetto di questa serie tv dedicata a esplorare il regno di Elisabetta dal 1947 fino agli Anni 2000, gli autori avevano messo ben in chiaro di non avere alcuna intenzione di adoperare una sola attrice, facendola magari invecchiare gradualmente con l’aiuto del make-up e delle moderne tecnologie di editing del video. Al contrario, hanno trovato molto più coerente selezionare, di volta in volta, interpreti tagliati su misura di un ruolo che, come si è effettivamente visto fino ad ora, non rimane mai uguale a se stesso e si conforma quasi come un guanto ai corsi e ricorsi della storia (forse c’è già la futura Elisabetta, qui per scoprirla). Discorso applicato fedelmente anche ai ruoli collaterali che, nel caso di The Crown, non gravitano semplicemente attorno al perno fondamentale ma vantano personalità, tratti, definizioni autonome e per nulla accessorie alla trama.
Così, Matt Smith ha lasciato il posto a Tobias Menzies nel ruolo di Filippo, Vanessa Kirby a Helena Bonham Carter in quello di Margaret e Claire Foy ha ceduto la sua preziosa corona ad una grandiosa Olivia Colman che con la regalità aveva già avuto a che fare, indossando i panni di Anna di Gran Bretagna ne La Favorita. Ruolo che l’ha lanciata nell’Olimpo degli attori da Oscar e ha riempito il suo palmares di premi e riconoscimenti.
Insomma, un turnover rivoluzionario che ha interessato prevalentemente le pedine fondamentali della scacchiera e che, non facendosi avvertire in modo invadente, ha contribuito a far sì che il passaggio dalla seconda alla terza stagione fluisse in maniera naturale. Proprio come gli anni che Elisabetta si vede scorrere davanti agli occhi, che sente nelle rughe che le solcano il viso e, soprattutto, nel peso di tutte quelle responsabilità che la giovinezza le faceva affrontare con una leggerezza che sembra proprio non potersi più concedere.
Olivia Colman raccoglie il testimone come forse nessuno avrebbe potuto fare.
No, non ha gli occhi azzurri della Regina e forse esteticamente ci somiglia meno di chi l’ha preceduta ma è riuscita a cucirsene addosso emozioni e fragilità attraverso un’interpretazione che fa di controllo e misura i suoi punti di forza (ne abbiamo tessuto le lodi qui), e una mimica che coinvolge lo spettatore al punto da fargli avvertire la sua stanchezza, il suo dolore, il peso delle sue preoccupazioni, il suo sollievo. Creando una connessione che distrugge lo schermo e tocca le corde dell’empatia. Quelle che in pochi riescono anche solo a sfiorare. Quelle che solo le attrici in grado di mettersi in pausa per rinascere nel personaggio che interpretano possono accarezzare.
Ma non è tutto. Perché l’operazione si è rivelata vincente anche per l’eclettismo che l’attrice britannica ha dimostrato di avere.
Di episodio in episodio, ma anche solo di scena in scena, non si ha mai la sensazione di avere di fronte la stessa Elisabetta. Lo si nota nel rapporto con il marito, l’unica persona che riesce a denudarne gli occhi e il cuore, lasciandocene conoscere il lato più privato. Lo si nota nel rapporto coi figli, in quel conflitto tra istinto materno e protocollo che la tormenta. Lo si nota nel rapporto con la sorella, alla quale la lega il desiderio di non farla sentire eternamente seconda e la sana invidia per il privilegio di poter vivere le giornate senza pensare badare alle aspettative degli altri. La dialettica con le figure che gravitano attorno al suo centro la rende una e molteplice, cristallizzandola nell’immagine che conosciamo ma, contemporaneamente, scomponendola in tanti, minuscoli pezzettini nascosti.
Altrettanto vincente anche l’entrata in scena di Menzies. Dopo il Filippo frustrato di Matt Smith, schiacciato da una consorte ingombrante e costretto a frenare l’ambizione per adattarsi a un ruolo che non lascia spazio a colpi di testa, quello della maturità è un principe che ha imparato a stare un passo indietro, crogiolandosi in un mondo dorato di privilegi (spesso senza né capo né coda) che lo rende cieco e sordo alla realtà che lo circonda. Trasformandolo nel bersaglio ideale delle critiche velenose dei più instancabili detrattori della monarchia.
Il cambio più radicale, però, è stato sicuramente quello della principessa Margaret. Kirby e Bonham Carter non hanno punti di contatto (tanto fisicamente quanto professionalmente) ma la performance stellare dell’ex Bellatrix Lestrange non fa rimpiangere il passato. L’eterna seconda maschera col menefreghismo e l’indifferenza il dolore di non poter mai avere tutto per sé il centro della scena, di essere considerata sempre troppo poco per poter far sentire la propria voce. E quando, invece, riesce a conquistarsi l’attenzione (come nel secondo episodio, Margaretology, una delle punte di diamante della stagione, tutto dedicato a lei) lo fa senza nascondere la sua parte più molesta, quella che cammina a piedi nudi, esagera con l’alcol e non si vergogna di dire le parolacce. Non ci saremmo aspettati nulla di meno da un’artista come Helena, che ci ha fatto sorridere con la Margaret libera e senza freni, e soffrire con la donna che, dietro all’aplomb da principessa, ha masticato con dolore lo sgretolarsi del suo matrimonio e la stanchezza nell’accettarne consapevolmente la fine.
Nuovi volti e nuovi risvolti anche per i personaggi di contorno. Come la Regina Madre (non più interpretata da Victoria Hamilton ma da Marion Bailey), Louis Mountbatten, il fotografo Anthony Armstrong-Jones (che nella seconda stagione fa perdere la testa a una giovanissima Margaret e ne diventa il marito) e, ovviamente, per i giovanissimi di Casa Windsor, Carlo e Anna, che si ritrovano cresciuti e più maturi a dover incastrare lo slancio verso l’indipendenza (soprattutto nelle relazioni sentimentali) con il dovere di rispettare l’immagine della famiglia e soffocare qualsiasi cenno d’insofferenza.
Il bilancio di questo recasting, dunque, non può che essere positivo.
Nulla è fuori posto e i grandi artifici, inseriti appositamente per stupire o per sopperire a una trama che non riesce a reggersi in piedi, qui non servono affatto. Basta guardare solo un episodio per rendersi conto di come la novità abbia regalato allo scenario ideato da Peter Morgan una luce nuova. Forse migliore della precedente, forse semplicemente diversa e, a suo modo, calzante. In una galassia di serie tv che per rinnovarsi finiscono irrimediabilmente con lo snaturarsi, The Crown rimane fedele a se stessa nonostante la rivoluzione. E ritrova nel cambiamento quello smalto che, negli anni, non ha mai davvero perso.