Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul finale di The Crown.
C’è un momento nel finale di The Crown in cui un vecchio orologio, ormai stanco ma mai domo, sembra riprendere improvvisamente a scorrere: tic, tac, tic, tac. La lancetta sospesa tra il passato e il futuro, un secondo avanti e uno indietro, s’era bloccata attraverso una donna che aveva svestito se stessa della propria identità in nome di un dovere da portare avanti, per poi fare un piccolo scatto in avanti: un istante, lunghissimo. Un’esitazione che mette in discussione una vita intera. Il peso della corona cresce esponenzialmente, divenendo insostenibile.
Elisabetta II, allora, dialoga con Lilibet per la prima volta da chissà quanto: la ricerca, le tende una mano nel momento più difficile e la ritrova sul viale dei ricordi. Gli occhi divengono lucidi, l’enigma si disvela, l’umana fragilità si impossessa di una vecchia regina che sembrava non aver considerato una qualsivoglia via alternativa alla strada dritta imboccata cinquant’anni prima. La avvolge la comprensibile malinconia connessa all’idea di poter non essere più l’incarnazione ideale di un’istituzione secolare a cui ha dedicato un’intera esistenza. Abdicare o no? Carlo è pronto? C’è ancora spazio per abbracciare una fanciullezza a cui aveva rinunciato dopo quella lontana notte al Ritz? La morte incalza quando ancora la vita è ben presente, quasi fosse uno spauracchio evocato dal destino per sfidare l’immortalità di un nome ormai scritto sulla pietra. Sì, ma per quanto?
La risposta la conosciamo, tutti: Elisabetta terrà fede fino in fondo al giuramento, fino all’ultimo respiro.
Tic, tic: il tempo non esiste più. E la storia s’ingloba nella monolitica figura di un’icona che ha finito per asservire l’orologio stesso. Lei come nessun altro saprà mai fare, se non nel riflesso di un nipote in cui rivedersi in un altro mondo. Alle proprie condizioni, a sua volta impostele centinaia d’anni prima della sua nascita. Tic, tic: la lancetta si ferma per sempre. Va avanti e indietro senza scorrere libera, domata dalle leggi di un fato imperscrutabile.
Non la bara, non le dolci note di Sleep, Dearie Sleep. Non la criptica presente di se stessa, una e trina in virtù di un percorso in cui giovinezza e anzianità si sono mescolate con la solidità di chi non ha mai disconosciuto l’uguaglianza del punto di partenza e del punto d’arrivo. E nemmeno la morte, certezza caduca di chiunque abbia perso la partita a scacchi col fato. Nessuna forza naturale o innaturale metteranno mai un punto a un’esperienza a suo modo unica: quella di The Crown, e di una regina che ha saputo sottrarre alla storia i corsi per fermarsi ai ricorsi. Stando fuori dal tempo e dalla storia stessa per scriverla nell’arco di un secolo che sembrano essere almeno tre. Fino ad attraversare la navata principale per l’ultima volta, e consegnarsi all’eternità senza più possibilità di smentite.
È terminata così la lunga avventura di The Crown. Un’avventura a tratti memorabile, a tratti controversa e a tratti – purtroppo – deludente. Ma non si potrà mai discutere granché a proposito del finale.
Un punto conclusivo ideale e poetico, metafisico e allo stesso tempo concreto, poggiato su licenze imprescindibili e sull’essenza di una narrazione che aveva rappresentato dall’inizio un accorato omaggio a una figura storica irripetibile: Elisabetta II.
A lei, ma non necessariamente a tutti gli altri. Se da un lato è innegabile il peso di una corona che la serie Netflix ha enfatizzato in ogni modo per sei stagioni, dall’altra tutto sembra riassumersi nella scelta finale di Lilibet e – se possibile – ancora più nelle sferzanti considerazioni di Filippo nel corso dell’ultimo dialogo con l’amata moglie: l’omaggio, infatti, è destinato alla monarca, non alla monarchia stessa. Né, tantomeno, ai teatranti smaniosi di protagonismo, incapaci di cogliere nel profondo il senso ultimo di un’istituzione che sembra difficile potranno mai rappresentare con la medesima credibilità. Dal primo all’ultimo, figli della propria epoca e di una storia che li schiaccia a condizioni diverse da quelle richieste. Schiavi del tempo, e di una lancetta che corre all’impazzata scandendo anni come se fossero secondi.
Ma l’Elisabetta di The Crown, fedele alla percezione che i sudditi ne hanno sempre avuto anche nei momenti più acuti di crisi, è di un’altra pasta: percorre per decenni un torrente che per tutti gli altri rappresenta una rapida incontrollabile, quasi fosse un fiume placido in cui accarezzare la storia con la ferma e rassicurante carezza di una nonna. Quello di una madre, ma anche di una bambina e di una regina nata adulta. Protagonista, sempre e comunque. Ma sempre sullo sfondo, al centro e in disparte. Dentro e fuori dai passaggi epocali che il suo regno attraversa, riesce nell’impresa di segnare a fondo la storia senza sfiorarla in alcun modo.
Trova un intangibile spazio in cui essere senza poter essere: una guida preziosa in cui l’assenza diviene parte della presenza stessa.
Elisabetta non si è limitata a essere la degnissima portatrice di una corona dalle sfaccettate memorie: è divenuta a sua volta corona, tempo e storia. Attraversando il cambiamento senza rigidità né concessioni estreme a un futuro che sembrava poter rinunciare alle vecchie certezze. L’ultimo porto sicuro di una nazione alla rovina, l’ultima Windsor di una linea di successione che potrebbe non sopravvivere all’esempio di una regina pervasa di misticismo anche nei mondani tempi odierni. Se non attraverso un amato nipote, potenziale erede di un’esperienza che pare altrimenti ai titoli di coda.
The Crown, allora, sembra aver risposto alla domanda che molti si fanno oggi come non mai: che senso ha, oggi, una monarchia in una realtà occidentale come quella del Regno Unito?
Forse nessuno, ma diventa tutto nell’esperienza di vita di Elisabetta. Sottratta all’infanzia per assolvere l’oneroso onore di guidare una nazione intera. E con essa un’idea di mondo che ritrova nel cocciuto tradizionalismo una replica alle incertezze di un presente iconoclasta. Un’idea impossibile, eppure sostenuta dall’esempio di una donna che ha sfidato il tempo senza mai scadere nell’affronto, uscendone vincitrice. Lei che ha fatto dell’incantesimo di un mago vetusto tutta la sostanza delle cose, e di una vita intangibile una fiaba contemporanea – un sogno tale per chiunque non l’abbia vissuto in prima persona – per poi sublimarsi in una saga arrivataci dalle pagine impolverate di una storia andata avanti senza lasciarla indietro.
Fino alla fine. Fino all’8 settembre del 2022, giorno in cui la sua parentesi terrena si è conclusa, distante decenni dall’ultimo atto di The Crown eppure così vicino. Un battito di ciglia in cui il mondo è cambiato e lei si è riscoperta sempre più giovane. Una voce nuova dall’ugola antichissima, sempre presente per trasformare il Duemila in una diapositiva in bianco e nero. E un vecchio film nel reel di una monarchia che si è aggrappata a lei per sopravvivere e riscoprirsi ancora necessaria. Per un attimo ancora, prima che la festa finisse e la caducità umana portasse a uno scatto deciso. Forse a un punto finale, l’unico possibile per un’eredità tanto ingombrante. Scatta la lancetta, scatta. Tic, tac: Lilibet non c’è più. Forse no. Tic, tic: Elisabetta vivrà per sempre. Tic, tic.
Tic, tic, tic…
Antonio Casu