Attenzione: l’articolo può contenere spoiler su The Curse.
Tra le sorprese più inattese, spiazzanti e bizzarre, a cavallo tra il 2023 e il 2024, non può che piazzarsi sicuramente, in maniera netta e prepotente, The Curse: uno dei contenuti più insoliti degli ultimi anni. Con pochi eguali nel panorama cinematografico e televisivo, la serie tv ha probabilmente creato un nuovo precedente, nonostante possa essere in qualche modo associata (alla lontana) a un cult come Twin Peaks, prevalentemente a causa dello stile grottesco che ne connota i toni. Eppure, più ci sforziamo, più facciamo fatica a individuare qualcosa che assomigli a The Curse. Questo perchè, nonostante presenti alcuni connotati inevitabilmente correlabili ad altro, nella sua stravaganza riesce incredibilmente a catturare e riflettere lo stile del tempo che rappresenta. Non c’è niente come The Curse, perché The Curse è una serie televisiva d’oggi e, irrimediabilmente, la contemporaneità in cui siamo immersi non può che essere la realtà più esagerata e folle vissuta dall’essere umano nel corso della sua lunga storia. Infatti, l’incontro e scontro sempre più profondo tra il digitale e la globalizzazione sta producendo effetti ormai pressoché incontrollabili. In un contesto in cui performance e consumo raggiungono estremi incomparabili, siamo sempre più in grado di infiltrarci ed essere infiltrati. Ma a che costo?
A tal proposito, The Curse non può che elaborare uno scenario così controverso e complesso per rigettare un racconto che mette in luce le ipocrisie di chiunque, anche dei più (apparentemente) limpidi.
I protagonisti della serie tv sono degli ipocriti di prima categoria. Il che è il punto di partenza per l’intera base grottesca e satirica dello show, che non si sottrae dallo smascherare e deridere le bizzarrie che caratterizzano la contemporaneità. Creata dal genio dell’umorismo cringe, Nathan Fielder, e da uno dei registi di punta della dark comedy odierna, Benny Safdie, The Curse non può che essere un perfetto incrocio tra menti così fine e perverse. La serie tv sfrutta dunque l’umorismo satirico e cringe per raccontare l’operato di una coppia di novelli sposi: Asher (Nathan Fielder) e Whitney (Emma Stone) Siegel. Il pretesto è quello della realizzazione della prima stagione di un docu-reality fittizio (Fliplanthropy), che vuole raccontare il lavoro dei due nel tentativo di promuovere l’istallazione e vendita di case passive nella cittadina di New Española (New Mexico). L’operazione commerciale del programma non è altro che lo sforzo più oneroso di narrare la nobiltà del loro obiettivo di supportare la comunità locale. Facendo centro sulle loro vaste disponibilità finanziare, Ash e Whitney hanno trovato il loro nuovo scopo nella vita, perseguito con sorrisi giganteschi e inquadrature luminose, abbaglianti, sui loro volti tirati. Il reality è il pretesto con la quale le due celebrità cercano di affermare un’immagine di sè pulita, promuovendo uno stucchevole attivismo performativo che non può che evidenziarne, sin da subito, l’ipocrisia e le contraddittorietà alla base.
Ash e Whitney vogliono essere brave persone. Con il reality cercano la conferma e l’autoconvinzione di esserlo. Ma l’osservare il proprio, onesto, riflesso sullo schermo, spiati e colti di sorpresa, non può che metterli davanti all’evidenza della propria vera natura. Corrotti ulteriormente dall’eccentrico direttore e produttore Dougie Schecter (Benny Safdie), i due protagonisti non possono neppure provare a seppellire le loro contraddizioni. Non c’è finta clip, in cui Ash tenta di aiutare economicamente delle bambine in difficoltà, che tenga: il back e front stage della messa in scena smascherano continuamente i due filantropi. Con lo strumento ulteriore di una maledizione vendicativa, il rapporto tra gli sposini è costantemente messo alla prova e disturbato, portando alla luce l’egoismo e l’ambiguità celati dietro ai tanti contenuti postati in rete.
Infatti, dietro alle situazioni cringe, ai lunghi silenzi, alle insistenti ripetizioni di dinamiche scomode, il disagio che The Curse crea, dentro e fuori ai personaggi, non fa altro che mettere a nudo l’ipocrisia che caratterizza la società odierna.
Cruda, contorta, grottesca, esagerata: The Curse è puro disagio. Il disagio incontrollabile vissuto dai personaggi, riflesso nel senso di scomodità costantemente vissuto da noi spettatori, episodio dopo episodio. La miniserie è una vera e propria prova allo straniamento. Impossibile non essere scossi dalle situazioni più cringe con la quale i protagonisti vengono raccontati e messi in ridicolo. Infatti, la presa in giro di Ash, Whitney e Dougie è focale sin dall’inizio della serie tv. Nessuno è perfetto, e The Curse vuole ribadircelo costantemente, deridendo insicurezze, traumi, dinamiche oscure e figuracce a cui i protagonisti non possono sottrarsi. Ed è per questo che le situazioni finiscono per essere tra le più esagerate e assurde viste ultimamente sul piccolo schermo.
Dietro alla comicità più cruda che una serie tv cringe su una coppia di bianchi benestanti, che fanno beneficienza woke e sostenibile per ripulirsi la coscienza, c’è una riflessione ancora più profonda, messa in luce proprio attraverso il mezzo del reality che accompagna le vicende. Seguendo Ash e Whitney durante le loro giornate di lavoro, tra incontri con potenziali clienti, comunità locali e confessionali nel pieno stile del format, le telecamere non fanno altro che evidenziare la distorsione della realtà, nel tentativo di purificarla. I due provano a manipolare il reality televisivo a seconda delle proprie esigenze, eppure il mezzo non può essere completamente piegato, e non si può fingere per sempre. Seguiti costantemente, Ash e Whitney non possono mantenere costantemente alterata la propria, reale, personalità. Il formato pone l’accento sulla distorsione della realtà, mai raccontata per quel che è, e sulla tensione accumulata. Che cosa c’è di vero nella messa in scena dei due filantropi? Quanto c’è di vero nel loro comportamento off-set? Whitney e Asher si trattengono anche lontani dalle telecamere? Non abbassano mai la guardia, per non dare visibilità alla propria incoerenza, neppure davanti al proprio partner. E’ una performatività continua, trattenuti costantemente da un codice morale implicito (ed esplicito), a cui aderiscono nel tentativo di mostrarsi sempre migliori di quel che sono. O quanto meno per autoconvincersi di esserlo. Nessuno è degno di scrutarne la natura più egoista. Ed è forse proprio per questo che, nell’assurdo e spiazzante finale, Ash si lascia andare in un modo così folle e imprevedibile: in un climax così sconcertante, l’uomo non può che essere messo all’angolo dalla natura punitiva, spogliato finalmente di tutte le forti barriere costruite attorno a sé.
In un momento storico in cui siamo continuamente immersi nell’artificio veicolato dal filtro dei social media, il reality fittizio che vuole seguire Ash e Whitney ricerca la spontaneità performata, nel tentativo di dare al pubblico ciò che desidera: la natura più infima e accattivante di una coppia che cerca in tutti i modi di non infangare la propria reputazione e il proprio operato.
La tv e i social come strumenti di deformazione della realtà, rendendo ogni posto (e post) desiderabile, scintillante, sovvertendone il significato e la vera, imperfetta, essenza. Ed è per questo che l’assurdo reality non è altro che quanto di più coerente con le folli contraddizioni umoristiche di The Curse. E’ tutta una messa in scena continua, vuota, pretestuosa, manipolata e svuotata di senso. Come lo dimostrano i riflesso del volto di Whitney e Ash costantemente distorto tra gli specchi che li circondano. Menti, corpi e budella che si aggrovigliano. Quelle dei personaggi e le nostre. In un racconto che incita all’autocritica e alla critica. E’ grazie allo straniamento continuo di situazioni insolite, alla satira della performatività woke e al pesante senso di scomodità che la miniserie non lascia alcuno scampo, proponendosi come uno degli esperimenti più insoliti, assurdi e incredibilmente chirurgici degli ultimi anni.