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I (veri) punti di forza in The Curse

The Curse
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“Maybe this is all happening for a reason.”

– Asher Siegel

Con queste parole, il protagonista di The Curse cerca di dare un senso alle cose inspiegabili che stanno accadendo nella sua vita. Cose alle quali nessuno altro, a parte lui, sembra dare il giusto peso. Ma come ben presto ci insegna la miniserie, la verità è che la maggior parte di ciò che accade nella vita non ha una spiegazione. Niente ha senso. Questa è la morale che The Curse ci dona raggiungendo l’apice della sua surreale narrativa in quel finale che ci stravolge, sorprende e confonde. Un finale che ci lascia con più domande che risposte. Ma, hey, non è anche questa una metafora della vita?

ATTENZIONE! Se non avete visto The Curse, vi consigliamo di non proseguire nella lettura perché l’articolo potrebbe contenere spoiler.

1) Una trama banale per una serie tv non banale

Negli ultimi tempi siamo così assuefatti dalle solite trame seriali che, di fronte a un prodotto realmente diverso com’è The Curse, la nostra mente si rifiuta di accettarlo. Un po’ come assaggiare un piatto di una cucina esotica dopo aver mangiato per tutta la vita solo pizza e patatine. Un piatto, quello della serie di Paramount Channel, che ci stuzzica il palato risvegliando le nostre papille seriali, ormai assopite da lungo tempo. Siamo impreparati a ciò che stiamo per ingurgitare e, a conclusione di questo abbondante banchetto, avremo probabilmente bisogno di una buona dose di biochetasi.

Non tutti rimangono a tavola con noi. Comprensibile. Di certo non era nelle intenzioni di Nathan Fielder creare una pietanza appetibile e gustosa per tutti. In barba al politicamente corretto e al perbenismo contemporaneo, Fielder scrive una storia grottesca, cruda e spiacevolmente satirica. Parla di cose serie in maniera ignobile attraverso due personaggi insopportabili e meschini. Non è un piatto adatto a tutti e va benissimo così, purché sia chiaro fin dall’inizio.

The Curse
Nathan Fielder ed Emma Stone

2) Protagonisti grotteschi

Asher e Whitney Siegel in The Curse si presentano al mondo come una coppia bellissima e affiatata. Novelli sposini che hanno deciso di realizzare un sogno e mostrare a tutti che una via più sostenibile per vivere è possibile. Le loro ecohouse sono la promessa di un futuro più verde, più ecologico e ancora più verde (se non fosse chiaro il concetto). Case senza condizionatore, senza gas e senza cantina. Vengono definite “case passive” e sono ricoperte da vetri sostenibili. Insomma, a metà tra Greta Thunberg e il Nolan di Interstellar. Così, Whitney si fa portavoce di una rivoluzione sostenibile alla portata di tutti… quelli che hanno abbastanza soldi da poterselo permettere. Nella loro opera di promozione, i coniugi Siegel cercano disperatamente di lanciare il loro reality show “Flipanthropy”.

E decidono di girarlo nei quartieri malfamati di Española, New Mexico. Un’opera di gentrificazione mascherata da sostegno economico per le famiglie povere della zona. Eppure, i Siegel credono davvero di agire in maniera disinteressata, come risulta ben chiaro fin dal primo episodio. Per approfondire, qui trovate la recensione completa del pilot.

Più le loro bugie in The Curse si fanno evidenti e tragicomiche, più assistiamo al tentativo goffo di mascherarle. Ciò che davvero sconvolge lo spettatore è la convinzione perenne e costante dei Siegel di comportarsi da “brave persone”. Questo loro costante bisogno di essere benvoluti e apprezzati da chiunque li circondi, li spinge ad agire in maniera sconsiderata. Come quando Whitney lascia la sua carta di credito nel negozio di jeans per addebitarle i costi di chi compra in negozio, ma non può pagare. In parole povere, la donna sta pagando di tasca propria dei furti. Questo momento di assoluta insensatezza rappresenta solo la punta dell’iceberg di un susseguirsi incessante di situazioni inverosimili e illogiche che ci lasciano sempre più basiti.

Menzione d’onore va fatto ai due interpreti principali di The Curse. Emma Stone brilla, più inquietante che mai mentre Nathan Fielder ci conquista con il suo uomo comune e privo di qualità.

The Curse
The Curse

3) La tragicommedia del nostro secolo

La comicità, quella vera, riesce a far ridere senza troppo clamore. Ed è questa una delle doti principali di The Curse. Parliamo di una miniserie comica a tinte sovrannaturali in cui la risata è mascherata da strati e strati di cringe. La risata che genera la miniserie non è quella sguaiata da classica commedia americana, ma una più ricercata e attesa. Per questo motivo, quando viene infine raggiunta, questa risata risulta ancor più importante e sentita. Non si ride spesso, forse alcuni non rideranno per niente. Rimaniamo comunque convinti del fatto che lo show di Fielder non vi lascerà indifferenti. Siamo di fronte a una tragicommedia vecchio stampo in cui gli elementi comici e tragici riescono a coesistere all’interno della stessa opera. Senza che uno prevalga sull’altro. Dolce e salato si mescolano in questa portata il cui scopo principale è quello di esplorare situazioni o eventi assurdi della vita quotidiana.

L’umorismo diventa allora uno strumento furbescamente usato per parlare di tematiche serie e scomode in The Curse. Ma spesso presenta anche una soluzione che ridimensiona o alleggerisce la gravità delle situazioni. Dalla satira di Petronio alle tragicommedie di Shakespeare (come “La Tempesta”), la storia è piena di illustri esempi di un genere ormai sempre più dimenticato. Genere che Fielder ha deciso, invece, di omaggiare in questa piccola opera incompresa. Una tragicommedia che va a braccetto con l’horror, o almeno con un presunto tale. La maledizione che dà il titolo allo show aleggia, per tutto il tempo, come una spada di Damocle sulla testa di Asher. Personaggio che, nel finale, sembra effettivamente vittima di un evento inspiegabile.

4) Quando Lynch incontra il cringe

Quando siamo ormai certi di aver compreso la natura di The Curse, ecco che la miniserie torna a farsi incomprensibile. Collocarla così in maniera decisa in quella o in quell’altra categoria diventa assolutamente inutile. C’è un po’ di Kafka, in quell’inettitudine costante che accompagna il povero Asher, e c’è anche un po’ di Lynch, tra scenari onirici e accadimenti grotteschi. Sopra ogni cosa, quasi a ricoprire The Curse da capo a piedi come la melassa, troviamo il “cringe”.

Puro, acerbo e inconfondibile. Avvolge la storia dei nostri poveri disgraziati dall’inizio alla fine, accompagnando noi spettatori in questo viaggio imbarazzante al quale siamo rimasti incollati. Siamo di fronte alla migliore parodia dei reality show, alla peggiore tra le critiche alla società contemporanea. Per tutta la durata dei suoi dieci episodi, la serie tv ci bombarda di dialoghi senza senso, di siparietti difficili da mandare giù. E lo fa, sempre, con una spaventosa pacatezza.

In questo modo, la sensazione non è mai quella di venire invasi nelle nostre stanze. Semmai quella di essere gentilmente accompagni per mano dentro una tana oscura che, a confronto, quella del Bianconiglio era illuminata a giorno. The Curse piace perché il suo scopo non è mai stato quello di piacere. Ed è proprio in questo totale menefreghismo che risiede la chiave del successo dello show. Uno show, badate bene, non adatto a tutti gli stomaci.