Nei momenti più complessi della vita può capitare di pensare che, piuttosto che stare male, preferiremmo non provare nulla. La possibilità di non sentire emozioni, di rinunciare anche alle gioie pur di smettere di sentire dolore, in alcuni momenti può paradossalmente sembrarci una salvezza. Certo, non ci aiuterebbe ad affrontare i problemi, ma di sicuro sarebbe un modo efficace per aggirarli. Per fortuna non è così facile rinunciare alla propria sfera emotiva. Ma c’è anche chi si trova nella situazione opposta, chi involontariamente la mette in stand-by e cerca in tutti i modi di riappropriarsene. È il caso di James, il protagonista maschile di The end of the f***ing world, un ragazzo di cui si può dire tutto tranne che abbia avuto vita facile. Il suo passato ha praticamente messo dentro un tritacarne emotivo la sua personalità e lui stesso non sa come affrontare la cosa nel modo giusto. Ma fortunatamente il processo non è irreversibile.
Nel primo episodio della prima stagione di The end of the f***ing world James è un diciassettenne alle prese con delle lacune emotive talmente grandi da essersi autoconvinto di essere psicopatico. Non è una persona che fa fatica a capire se stesso. Lui non sente niente, vuoto totale. Nel corso degli episodi scopriamo cosa lo ha portato a questo: ci vengono mostrati il suicidio della madre e la (mancata) reazione del padre. Prima di arrivarci però ci troviamo davanti a una persona che pur di sentire qualcosa comincia a uccidere animali, dei quali tiene un conteggio inquietante e dettagliato. E arriva al punto di pensare di uccidere un essere umano. Perché se non si sente nulla togliendo la vita a un’altra persona, allora è davvero finita.
La scelta ricade sull’ignara Alyssa, che pensa di scappare di casa con James per fuggire da una famiglia degenere non sapendo di essere in realtà la sua preda. Nelle prime fasi del viaggio che costituisce tutta la prima stagione di The end of the f***ing world James si lascia trasportare dalla vita senza viverla. È come un ramo staccato dall’albero e finito in mare: non ha più linfa, segue semplicemente la corrente, il ritmo delle onde che lo portano da una parte all’altra. È vivo ma non vive. Non è lui a scegliere cosa fare e quando, perché non sa neanche più cosa significhi volere qualcosa. Alle proposte di Alyssa, compresa quella di prendere l’auto di suo padre e scappare chissà dove e chissà come, James dice sempre sì. Sembra che gli stia bene tutto, ma in realtà non gli sta né bene né male, semplicemente non gli sta. L’unica cosa che sembra farlo andare avanti, l’unico desiderio che sembra anelare, è il fatto che prima o poi la farà fuori.
James è – o per lo meno crede di essere – sicuro del fatto che Alyssa sarà la sua vittima.
È la persona perfetta da uccidere. Eppure per un motivo o per un altro rimanda sempre l’omicidio, inconsapevole di non volerlo fare davvero. Lo posticipa anche nel momento perfetto, con un coltello in mano e lei placidamente addormentata. Alyssa non muore, però riesce ugualmente a far attecchire in James il seme dell’umanità che aveva perso. È effettivamente colei che rende James consapevole di poter provare ancora qualcosa, ma il punto è che non lo fa facendosi uccidere, ma facendosi amare.
Bastano pochi episodi e un minimo di relazione sociale con una persona diversa da lui ma ugualmente spezzata per far capire a James di essere ancora un essere umano. Alyssa è viva, a volte odiosa, altre volte adorabile, ma sempre viva. E lui comincia a seguirla. Prima pensa di ucciderla e poi di volerla proteggere, fino a rendersi conto del fatto che in realtà è lei a proteggere lui. Fatto sta che James comincia a cambiare, e a innescare questo cambiamento è proprio Alyssa. Ma non fa neanche in tempo ad accorgersi del fatto che sta cominciando a sentire qualcosa senza dover necessariamente togliere la vita a qualcuno, che si ritrova – stavolta non per volontà ma per necessità – a uccidere. E si rende conto che togliere la vita a un altro non la restituisce a lui. Anzi, è un gesto che porta con sé un trauma grande almeno tanto quanto quello causato dal suicidio della madre.
Eppure anche dopo il non tanto piccolo incidente di percorso che è l’omicidio di uno stupratore, il viaggio di James e Alyssa non finisce.
E mentre James impara a conoscere meglio lei, comincia a conoscere meglio anche se stesso. Alyssa non è la sua risposta, ma è certamente colei che gli rende possibile trovarla. Quando lei c’è, quando temporaneamente lo abbandona, ogni suo gesto scatena in James emozioni diverse che non sapeva di poter più provare. Lo stile della narrazione, che spesso ci permette di entrare letteralmente nella testa dei personaggi esprimendone ad alta voce i pensieri, ci consente di stare sempre al passo con la sua maturazione, di capirlo davvero. James passa da fingere di provare qualcosa a fingere di non provare niente per il timore di quello che sente. Ma intanto sente, e questo è un primo grande passo. Purtroppo però i reati che James e Alyssa si lasciano alle spalle durante tutta la prima stagione lasciano tracce che portano dritte a loro. E nel momento clou, sul finale, James fa in modo che Alyssa, colei che aveva intenzione di uccidere, non risulti colpevole. Se non è amore questo, allora non so cosa sia.
Nella seconda stagione di The end of the f***ing world ritroviamo un James diciannovenne che forse non è Mr. Empatia, ma che prova emozioni. Non è felice, è ridotto maluccio a causa di un colpo di pistola, non ha più Alyssa, eppure è vivo. Suo padre comincia a cercare un modo vero per comunicare con lui, ma i suoi goffi tentativi di costruire un rapporto con il figlio si concludono con la sua morte prematura su una pista di bowling. In questa ennesima tragedia sta il suo cambiamento più grande. Il James del primo episodio della serie probabilmente non avrebbe fatto troppo un problema della morte del padre, con ogni probabilità non avrebbe provato nulla. Invece quello che troviamo qui è un James che forse non ha capito bene come affrontare il lutto, ma che ne sente il peso. Passa dallo scappare da suo padre al portare con sé le sue ceneri in giro per il Paese. Non è certo un gran modo di elaborare la perdita, ma è il modo di una persona che sa di tenerci. In un contesto in cui non può mettersi in contatto con Alyssa, le ceneri del padre sono quanto di più umano lui abbia a disposizione, e non riesce a staccarsene. E ancora una volta ci penserà Alyssa con il suo cinismo ad aiutarlo ad affrontare la cosa. Di nuovo, lei non è la risposta ma lo aiuta a trovarla.
C’è bisogno però di una stalking omicida per riunirlo a lei, con tutti i problemi del caso. Un proiettile minatorio è ciò che lo spinge a riavvicinarsi ad Alyssa e che mette in moto buona parte delle vicende della seconda stagione della serie. Una stagione durante la quale James, colui che solo poco prima aveva scoperto di poter provare dei sentimenti, comincia addirittura a saperli riconoscere. Riesce con non poche remore a dichiarare il suo amore ad Alyssa, e il fatto che pensa che lei stia dormendo (spoiler alert: è sveglissima) non ne mina l’importanza. Un ragazzo che fino a due anni prima uccideva degli animali per sentirsi vivo, dice “Ti amo” a un altro essere umano. È un bel passo avanti. E Alyssa, nel suo modo sempre tutt’altro che convenzionale, ricambia. Direi che possiamo all’unanimità considerarlo un lieto fine.
Le vicende di The end of the f***ing world sono a tratti paradossali, a tratti inquietanti, a tratti quasi comiche.
È una serie in cui succede praticamente di tutto: una fuga, un tentativo di stupro, un omicidio, diverse rapine, un matrimonio, uno stalking abbastanza compulsivo. E mentre tutte queste cose succedono James cambia, cresce e soprattutto si umanizza. In un mondo in cui due ragazzi devono scappare dalla loro vita per ritrovare se stessi, la loro storia ci insegna che quello della conoscenza con il nostro vero Io è un processo lungo. E che per quanto possiamo essere spezzati, c’è sempre tempo per ricomporci. E allora no, la fine di questo f***uto mondo non è ancora arrivata.