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Caro Diario, sono io, Bucky

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Attenzione: in questo articolo sono presenti spoiler su The Falcon and The Winter Soldier.

Caro Diario,

sono io, Bucky.

Oggi ho tenuto il primo incontro con la psicologa che mi è stata assegnata. Quella di scrivere un diario è stata una sua idea. Sostiene che tendo ad aggirare i miei pensieri e che metterli nero su bianco mi aiuterà a farci i conti. Non so se potrà essere davvero una soluzione, ma so che ha ragione riguardo alla premessa: ci sono cose che non voglio affrontare. Per esempio, gli incubi. Non voglio a tal punto che ho totalmente omesso di parlargliene. Non le ho detto delle notti in cui mi trovo a sobbalzare con il cuore a mille e la fronte madida di sudore, degli istanti passati con gli occhi sbarrati e le dita artigliate alle lenzuola nell’attesa che il battito cardiaco deceleri. In quei momenti è come se avessi le orecchie invase dalle grida che ho provocato e i polpastrelli incrostati dal sangue che ho versato, come se tutto il male che ho fatto mi tenesse disteso e immobile con la forza del suo peso. Le persone che ho ucciso sono come uno stuolo di fantasmi che mi infesta perennemente la testa; quando mi sveglio di soprassalto la loro immagine si dissolve nel bianco opaco del soffitto, ma non se ne va mai davvero, mai completamente, mai e basta.

The Falcon and The Winter Soldier

Mi sento in colpa, e sento un disperato bisogno di fare ammenda. Per questo motivo ho scritto una lista di nomi sulla mia agenda, l’agenda che Steve mi ha ceduto prima di andare via. Lui l’ha usata per appuntare tutto ciò che desiderava scoprire del mondo in cui si è ritrovato catapultato: i film da vedere, i posti da visitare, le esperienze da provare. Forse dovrei prendere esempio. La psicologa dice che devo trovare delle attività a cui dedicarmi: passatempi, interessi, abitudini. Dice che sono queste le cose che ci definiscono: quello che facciamo, che amiamo e in cui crediamo. Il problema è che per anni sono stato semplicemente ciò per cui ero stato programmato: una spia, un’arma, una temibile minaccia. Non ho dovuto scegliere come comportarmi, né cosa fare, né come vivere. Il Wakanda mi ha depurato dalle scorie del Soldato d’Inverno, ma ora sta a me riempire lo spazio lasciato vuoto da ordini e condizionamenti. Ora sta a me decidere. La verità è che non so da dove cominciare. È come se dovessi imparare a parlare senza aver mai usato le parole, senza aver mai nemmeno emesso un solo, singolo suono. Mi chiedo se depennare le voci di una lista possa essere abbastanza o se è solo un’illusione a cui mi piace dare credito.

Un diario dovrebbe servire a resocontare le proprie giornate, ma le mie non sono particolarmente interessanti, anzi; sono decisamente banali, almeno per chi è abituato a quella che può essere considerata la normale routine quotidiana. Io non lo sono, o almeno non più. Per me è una novità svegliarmi e preparare la colazione, così come lo è uscire e ritrovarmi a contatto con le persone. Stamattina ho incrociato di nuovo il signor Nakajima. La prima volta che ci siamo trovati l’uno di fronte all’altro mi ha rivolto un sorriso che mi ha spiazzato al punto che non sono riuscito a ricambiare. In quel momento per lui ero soltanto il suo nuovo vicino di casa, ma a me sembrava impossibile che mi vedesse come una persona e non come una macchina da guerra, che mi guardasse senza alcuna paura negli occhi.

Pensavo che avrebbe interpretato la mia mancanza di reazioni come un segno di cattiva educazione e che avrebbe preso a ignorarmi, e invece il giorno dopo mi ha mostrato lo stesso sorriso aperto e cordiale, e dopo un attimo di esitazione sono riuscito a ricompensarlo con un cenno di saluto. È stato lo scambio di un momento, una connessione umana nella sua versione più grezza e incipiente, eppure mi ha fatto sentire incredibilmente vicino a quell’uomo di cui, di fatto, conosco soltanto nome e indirizzo. Vorrei imparare a guardarmi con gli occhi del signor Nakajima, a rintracciare in me la stessa umanità che deve aver visto lui quando ha deciso che mi meritavo un assaggio della sua gentilezza. Forse dovrei proporgli di andare a mangiare qualcosa insieme, così potrebbe insegnarmelo. Se lo facessi, avrei qualcosa di nuovo da raccontare in una delle prossime pagine. Potrei parlarne anche alla psicologa, in attesa di trovare il coraggio necessario a tirare fuori il resto.

Forse tenere un diario non sarà davvero una soluzione, ma mi sembra che possa essere una buona idea.

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