The Falcon and The Winter Soldier, miniserie ideata da Malcolm Spellman e diretta da Kari Skogland, è stato il secondo step di un percorso basato sull’apertura del MCU al format seriale, dopo dieci anni in cui lo abbiamo visto configurarsi in chiave esclusivamente cinematografica. Il prossimo sarà Loki, la cui uscita è stata recentemente anticipata, e in seguito sbarcheranno su Disney+ altri titoli con date di uscita ancora da definire, che porteranno sul piccolo schermo nuovi personaggi e vecchi beniamini provenienti dai fumetti del compianto Stan Lee.
La serie è stata salutata da recensioni positive e commenti tendenzialmente entusiasti, ma noi riteniamo che al netto di alcuni pregi in The Falcon and The Winter Soldier non tutto sia andato come doveva andare.
Attenzione: l’articolo contiene spoiler!
In WandaVision le potenzialità insite nella struttura seriale sono state sfruttate magistralmente. La successione degli episodi ha veicolato lo svelamento dei livelli su cui la trama si è articolata e ha scandito il susseguirsi delle diverse fasi attraversate dalla protagonista nel suo percorso di presa di coscienza. Una compressione degli eventi avrebbe tolto alla storia i suoi tratti peculiari e non le avrebbe consentito di dispiegarsi con le modalità originali e curate che ha adottato.
In The Falcon and The Winter Soldier la gestione dei tempi narrativi è molto più mal dosata.
Alcuni episodi sono piatti e poveri di sviluppi (anziché fare da rampa di lancio verso il finale, la 1×05 indugia a dismisura sulla riparazione della barca dei Wilson; va bene il simbolismo dell’atto collettivo, ma il minutaggio riservato all’evento è stato decisamente eccessivo e ha finito per stonare in quello specifico momento della storia), altri (quelli seguiti alla liberazione di Zemo) scorrono a un ritmo fin troppo frenetico, con gli avvenimenti che si affastellano convulsamente senza concedere un attimo di respiro né a chi li vive né a chi li osserva. Eppure non si vedono le ragioni di questa fretta, dal momento che, a conti fatti, i momenti realmente salienti si contano sulle dita di una mano; molte scene sono dei riempitivi che, se eliminati, non intaccherebbero la sostanza della storia.
Lanciamo una provocazione: The Falcon and The Winter Soldier sarebbe potuto tranquillamente essere un film della durata di due ore o poco più.
The Falcon and The Winter Soldier racconta la storia di un’eredità che giunge a compimento, con Sam Wilson (Anthony Mackie) che passa dal rifiutare lo scudo a stelle e strisce lasciatogli da Steve Rogers ad impugnarlo con orgoglio, diventando ufficialmente il nuovo Capitan America. Uno sviluppo che gli conferisce una precisa ragion d’essere e definisce il senso della sua parabola individuale.
Non si può dire lo stesso di tutti gli altri personaggi, sfruttati poco oppure male.
Partiamo dal coprotagonista: Bucky Barnes, l’uomo che l’Hydra ha trasformato in un’arma vivente a suon di torture e lavaggi del cervello. Nella trilogia di Capitan America lo abbiamo visto riconquistare i ricordi che gli erano stati strappati e riprendere contatto con la sua identità. The Falcon and The Winter Soldier aveva l’opportunità di fargli compiere un percorso al quale la vocazione action dei film difficilmente avrebbe lasciato spazio, e invece lo ha ridotto a una presenza perlopiù accessoria. La psicologa che avrebbe dovuto occuparsi di lui è poco più di una comparsa e lo spunto della terapia viene introdotto per poi essere accantonato nel giro di due episodi.
Il punto di massima consapevolezza raggiunto dal personaggio è innescato dalle parole con cui Sam lo invita a disfarsi del passato e a guardare al futuro; uno sprono importante, certo, ma che non può sostituire un lavoro su se stessi fatto in prima persona e raccontato dalla scrittura attraverso adeguati momenti di introspezione. Se il soggiorno in Wakanda è servito a depurare Bucky dalle ultime scorie residue del Soldato di Inverno, la sua sottotrama nella serie avrebbe dovuto aiutarlo a metabolizzare quei trascorsi e a lasciarseli finalmente alle spalle.
Eppure il fardello legato a quell’esperienza non sembra pesargli meno di quanto abbia sempre fatto quando si attribuisce la colpa dell’omicidio del figlio del signor Nakajima, senza spiegare quali siano le circostanze che lo hanno spinto a commetterlo e senza dissociarsi da quell’atto efferato. Non sarebbe stato molto più soddisfacente un confronto in cui avesse avuto modo di spiegarsi e di ricevere il meritato perdono? Quella che abbiamo visto nella serie non si distacca dalla versione apparsa in Civil War, tenuta in ostaggio da un senso di colpa perenne e asfissiante, e una progressione sarebbe stata decisamente più auspicabile.
Arriviamo a quello che è stato celebrato come il miglior personaggio di The Falcon and The Winter Soldier: il barone Zemo.
Le lodi dirette al personaggio sono più che giustificate. Con il suo carisma Zemo ha rappresentato un innegabile valore aggiunto sul piano dell’intrattenimento e dell’appeal. Il problema è che la sua presenza non è stata per niente ottimizzata, anzi: il suo reclutamento da parte di Sam e Bucky è stato un mero espediente narrativo. Con le risorse derivanti dal suo lignaggio Zemo ha favorito i loro spostamenti ed essendo nativo del luogo ha fatto loro da tramite rispetto agli abitanti di Sokovia. Esauriti questi compiti è tornato in prigione, il tutto senza aver avuto alcun peso specifico nell’economia della storia.
E ora affrontiamo il tasto che riteniamo più dolente: il plot twist relativo a Sharon Carter.
Partiamo da un presupposto: i protagonisti della serie non sono personaggi originali, ma derivano da un contesto che ci ha dato modo di conoscerne l’indole e la personalità. Tutti i fan della Marvel ricordano il discorso che Sharon ha tenuto al funerale di sua zia Peggy in Civil War.
Una volta le chiesi come riuscisse a padroneggiare la diplomazia e lo spionaggio in un periodo in cui nessuno voleva vedere una donna avere successo. Mi disse: “Accetta i compromessi dove puoi. Dove non puoi, non farlo. Anche se tutti ti diranno che una cosa sbagliata è una cosa giusta, anche se tutto il mondo ti inviterà a spostarti, è tuo dovere stare piantata come un albero, guardarli dritti negli occhi e dire no, spostati tu.
Un insegnamento che Sharon ha dimostrato più volte di aver interiorizzato. La sua bussola morale ha sempre puntato in direzione della cosa giusta da fare e mai della più conveniente. Un personaggio può subire un totale sovvertimento? Sì, ma quanto più il rivoluzionamento è significativo tanto più va indagato e sviscerato, per consentire allo spettatore di cogliere le dinamiche psicologiche che hanno provocato un cambiamento così radicale.
Con Sharon quest’operazione è stata totalmente aggirata e della sua trasformazione ci sono stati forniti soltanto i presupposti, presupposti tra l’altro forzati: perché è l’unica a non essere stata riabilitata tra quelli che hanno parteggiato per il team Cap? E com’è possibile che in un arco di tempo così esteso nessuno dei suoi compagni si sia preoccupato della sua sorte e abbia interceduto per lei? Le domande e le perplessità sono tante, ma al posto di risposte e spiegazioni ci è stata data una Sharon che sghignazza nascostamente come ogni villain di cartone che si rispetti.
La scelta dev’esser stato concepita come un mirabolante plot twist da servire al pubblico, e invece è solo una delle tante cose che non hanno funzionato in un finale risultato tutt’altro che soddisfacente.
Un finale dozzinale e raffazzonato, che chiude le varie sottotrame in maniera scialba e precipitosa.
Ricostruiamone la struttura: abbiamo un lungo combattimento in fase di apertura, la rivelazione su Sharon e la morte di Karli condensate in un’unica, velocissima scena e Sam che si prodiga in un monologo (certamente nobile, ma anche piuttosto naïf e didascalico) per proclamare gli ideali in cui crede e in nome dei quali ritiene che bisogni agire. Questa facile schematizzazione smaschera la mancanza di complessità dell’episodio, che risulta piatto, prevedibile e privo del pathos richiesto. E se è vero che a contare non è la meta ma il viaggio, beh… per noi non è stato abbastanza elettrizzante da compensare una destinazione così deludente.