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Perché The Good Place fa bene all’anima?

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Vi è una sensazione di quiete in conclusione di The Good Place.

No, non stiamo parlando della bellezza, indiscussa, di Kristen Bell (già riconoscibile in Veronica Mars), né del fascino intellettuale e brizzolato di Ted Danson. Parliamo della nostra anima che si apre e si spinge verso il Nirvana, ad ogni istante degli ultimi atti della serie.

Mettiamo subito in chiaro le cose. Non analizzeremo The Good Place in quanto serie televisiva. Merita, certo, ma non è questo il luogo in cui verranno sviscerati i dubbi, i problemi, le falle, le grandezze e le squisitezze di una serie piccola, ma caratteristica [semi cit.].

The Good Place non è grande soltanto per il suo cast, stellare a dir poco, né per la sua trama, accattivante e intrigante fino alla fine. È grande per il percorso interno e mentale, volontario o involontario, che fa svolgere allo spettatore. È una serie che ti porta letteralmente alla disperazione dell’anima, per poi accompagnarti come un Virgilio televisivo nel paradiso dell’animo umano.

Partiamo dall’inizio.

In principio c’è la vita. È fin qui siamo tutti d’accordo. La vita che viviamo, quella che conosciamo, con i suoi alti e i suoi bassi. Con le sue incertezze e con le sue problematiche. Una vita che, come si vede nei personaggi principali di questa serie, può risultare difficile, in tutte le fasce e in tutti gli ambienti.

Dal più povero micro criminale della Florida, passando per la spietata mean girl dell’Arizona e il professorone sempre in dubbio del Senegal, fino ad arrivare alla Top Vip britannica. Vizi, insuccessi e cattive azioni si mescolano in un cocktail esistenziale insieme ai pregi, ai successi e alle buone azioni.

A un certo punto, a volte anche quando meno te lo aspetti, sopraggiunge la morte. Non c’è bisogno di soffermarci su tutte quelle paure e quei sensi di smarrimento che questo può produrre nella mente e nell’animo umano, perché The Good Place ci dà subito una risposta.

Tetra, diabolica e dantesca, ma una risposta. Per molti già così si potrebbe sanare il vuoto che la non conoscenza può produrre nella nostra psiche. Per altri, invece, è solo l’inizio di un forte attacco di panico e ansia.

La Parte cattiva, The Bad Place. Una zona destinata ad accogliere tutti coloro che si sono comportati male nel corso della loro esistenza. Un Inferno infinito dove arenare la propria anima, fra supplizi e torture di ogni genere.

Qui, bisogna essere onesti, lo spettatore medio potrebbe sentirsi smarrito e avvolto da un’aura buia e tempestata di paura. Fortunatamente, però, la serie non si ferma a questo punto e grazie all’evoluzione positiva dei personaggi ci dona nuova speranza e ci fa proseguire questo viaggio di crescita nella conoscenza dell’aldilà e nel nostro animo.

Vi sono diversi step. Prima di tutto scopriamo l’esistenza di una via di mezzo. Ossia di un luogo per coloro che non meritano il male né il bene. Ma è solo una bolla in una pentola d’acqua che persiste a non bollire.

Una mediocrità continua, per chi non ha meritato la parte buona, né i supplizi della parte cattiva. La Cincinnati, come la chiamano gli eroi della nostra serie. Quindi la narrazione non si ferma e ci troviamo catapultati nel prosieguo, scortati da Virgilio in questa crescita, ed è qui che The Good Place ci insegna la forza della natura umana, il non arrendersi mai.

Eleanor, Chidi, Tahani, Jason, Michael e Janet non si arrendono. Colgono l’esistenza di un’enorme falla nel sistema e decidono di combattere lo status quo con tutti i mezzi a loro disposizione, comprendendo quale che sia il tragitto da prendere.

Una scelta che li porta a stravolgere l’aldilà fino a ricostruirlo da zero ad immagine e somiglianza del loro progetto. Ne fuoriesce un luogo che ci piace, che ci dona tranquillità, che ci dà la sensazione di non essere definitivo. Anche dopo aver fatto mille errori avremo la possibilità di redimerci e di crescere, reset dopo reset, per raggiungere l’agognato Good Place: il Paradiso.

Un calcio nel deretano a tutte le torture, all’infinita tristezza e alla disperazione perenne dell’inizio.

Ma il sentiero per il Nirvana dell’anima, per la rilassatezza completa che questa serie ci dona, non si ferma qui. Insieme ai protagonisti facciamo un grande respiro di sollievo ed entriamo mentalmente nel Good Place, ed insieme a loro comprendiamo che qualcosa deve esser fatto anche all’interno della perfezione.

Perché proprio la caratteristica fondamentale della perfezione, ossia l’assenza di imperfezioni e soprattutto di una fine, rende questo posto imperfetto. Comprendiamo che la mancanza di una fine, di un epilogo, porta l’uomo all’apatia persino nei confronti della perfezione.

Il vostro piatto preferito sarà quindi perfetto al primo assaggio, stupendo al secondo, ottimo al terzo, buono al quarto e così via. Fino a raggiungere l’indifferenza, la normalità, ciò che in fin dei conti non è più perfezione.

The Good Place, come serie e come concetto, non si arrende ancora una volta e ci dona la speranza di una scelta estrema, finale e (forse) definitiva: la fine dell’esistenza anche dopo la morte.

Una fine che ridona qualità all’esistenza nella parte buona, perché alla fine “Gli esseri umani sono anfibi per metà spirito e per metà animali… come spirito aspirano al mondo eterno, ma come animali vivono nel tempo finito” [cit. C.S. Lewis], ed è proprio il tempo finito, all’interno dell’eternità, che rende la parte buona perfetta.

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Un percorso corto, ma significativo, che lungo tutte le puntate e le stagioni continua a far sospirare la nostra anima, fino alla perfezione concettuale. Fino alla tranquillità.

Per questo motivo, The Good Place fa bene alla nostra anima. Perché, se vista con la giusta mentalità, ci dona risposte e speranze che molte religioni ancora non hanno neppure osato dare.

Le motivazioni che portano alle assenze di risposte precise sono chiaramente ovvie, ma noi vogliamo crederci ugualmente. Vogliamo credere in Eleanor Shellstrop, nella sua redenzione e nel suo Happy ever after.

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