Easy è un brano del 1977 a firma di Lionel Richie. Rain Sometimes fa invece parte dell’album Portrait of a Gemini di Penny Goodwin. In comune soltanto la contemporanea presenza nell’ottavo episodio di The Handmaid’s Tale. Perché se la prima canzone esprime tutta la freschezza di una vita vissuta “alla leggera”, senza patemi e con un libertinismo totale, la seconda non è altro che una malinconica ballata di anime “incagliate nella pioggia”.
I due volti di questo ottavo episodio di The Handmaid’s Tale sono tutti qui.
In questo dualismo d’opposti che si riflette a inizio e fine puntata. A inizio con Serena. È lei che mette il disco. È lei che dirige la casa ed è autonoma direttrice d’orchestra della sua “musica”. Sempre lei che imposta il canovaccio dei discorsi e bada ai dispacci. Lo sprazzo di indipendenza, il rigurgito di sfrontatezza orgogliosa la restituiscono per un momento a quella che era.
Alla donna che nel precedente episodio abbiamo visto lottare per i suoi ideali, farsi interprete del suo pensiero e battersi per esso. Ora, in Gilead, non è solo un riflesso di quell’emblema di orgoglio femminile. In lei mai è venuto meno il desiderio di farsi interprete principale. Ma, contestualmente, ha deciso di mettere tale aspirazione in secondo piano di fronte a una battaglia da cui è ormai estromessa e ridimensionata a semplice moglie.
Eppure, quel suo inesauribile desiderio, quel concreto e pruriginoso bisogno di essere se stessa, di essere donna – e donna forte – non può scomparire. E così se nella 2×07 il passato di Serena veniva ad aprire una porta sul presente, ora quella porta si spalanca e si fa mezzo di affermazione personale.
O almeno così sarebbe dovuto essere.
Sempre più ci rendiamo conto quanto in ogni singolo episodio l’azione vera, il mettersi in moto degli eventi, passi inesorabilmente dalle donne, le uniche e vere protagoniste del racconto. Che siano Serena, June, Janine o chi per loro il mondo gira perché una donna lo spinge. In un verso o nell’altro. Così il ritorno a casa di Fred non è altro che la stasi dopo l’azione.
È lui in chiusura di puntata a mettere sul piatto il vinile che introduce la malinconica voce di Penny Goodwin. Eppure, questo suo ritorno, questo riappropriarsi del potere porta con sé il senso di una sconfitta. È il suo rango, il suo status di pater familias, marito-padrone, già di per sé a legittimarlo nel ruolo. E ciononostante l’unico modo che ha per opporsi all’iniziativa di Serena è tramite la violenza. “Una volta qualcuno ha detto: gli uomini hanno paura che le donne ridano di loro. Le donne hanno paura che gli uomini le uccidano”.
La prevaricazione sembra essere l’unico reale elemento di vantaggio e mezzo di affermazione dell’uomo sulla donna.
Il potere del primo sulla seconda non è altro allora che prodotto perverso di una logica di sopraffazione. Ce ne rendiamo ulteriormente conto quando scopriamo che di fronte alla bravura di una dottoressa, luminare nel suo campo, anche il potere maschilista di Gilead si sgretola.
Tutto muove per femminea mano, delicata ma ferma. June pressa Serena che a sua volta persuade Naomi, la madre adottiva, ad acconsentire affinché Janine veda il bambino. Sempre per tramite di Serena la dottoressa, ormai Marta, ha la possibilità di tornare a rivestire i vecchi abiti, di riappropriarsi della sua dignità di scienziata. Di donna in donna l’azione si mette in moto senza sosta mentre, inerti e sciancati gli uomini stanno a guardare.
A loro rimane nient’altro che la violenza brutale di Fred e le urla rabbiose di Nick o la rassegnata accondiscendenza di Warren, marito di Naomi. Ancora da una donna, Janine, passerà il miracolo dell’episodio, il ritorno alla vita, quasi che anche fisicamente, visceralmente, la naturale salute del bambino venga compromessa dalla follia malata delle brutture di Gilead. La salvezza, di contro, si lega allora al ritorno allo “stato di natura”. Al rapporto sano tra una madre e la sua bambina. Un legame innato e semplicissimo come una ninnananna sussurrata dolcemente all’orecchio.
The Handmaid’s Tale ci regala donne che reagiscono, che lottano, che si impongono con fermezza, che riacquistano la dignità di esseri umani e madri, lavoratrici e leader.
Tutte unite da un sottile, quasi impalpabile legame che correndo tra le pieghe di un mondo grigio trova sempre il modo di manifestarsi. Così tra Serena e June si genera l’inesprimibile coesione del sentirsi complici, dello scoprirsi sorelle. Un rapporto quasi simbiotico ben rappresentato dalla vibrante sofferenza di June per il dolore fisico che Fred imprime su Serena.
“Pensavo ci fossero ancora dei luoghi segreti nascosti tra le crepe e le spaccature di questo mondo. Luoghi che avremmo potuto rendere belli, pacifici, tranquilli, sicuri”. La speranza di June, l’illusione di un istante lascia posto al ritorno alla realtà, alla durezza di una vita le cui crepe non sono altro che false speranze. Perché se Gilead mostra le contraddizioni e le debolezze di un regime assurdo, la semplicità disarmante con cui uomini inetti riescono a soggiogare le protagoniste di The Handmaid’s Tale sembra non poter ammettere altro esito.
Fred ha in mano il vinile. Nonostante non sia interprete di quella musica è lui che la controlla, che ne gestisce il ritmo e l’avvio. La musica di Fred è la melodia di una June “incagliata nella pioggia”, che “sogna i suoi sogni invano” e “perde più di quanto ci guadagni”. La penna, il simbolo della rivolta pacifica, l’innesco a un’esplosione femminile, viene riposta diligentemente. Serena è accompagnata fuori dalla stanza. La canzone di Lionel Richie non ha ragione di imprimere l’aria con la sua sconclusionata leggerezza. Non è ancora tempo in The Handmaid’s Tale per “sentirsi leggero come una Domenica mattina”. Non ancora.