“Ooh, baby, do you know what that’s worth?
Ooh, heaven is a place on earth
They say in heaven, love comes first
We’ll make heaven a place on earth
Ooh, heaven is a place on earth”
La sentite? Chiede June all’inizio di quest’ultimo episodio di The Handmaid’s Tale. No? Beh, provate a immaginare voi stessi confinati in una camera d’ospedale. Soli, in ginocchio, assieme a una donna ormai morta. Immaginate la follia impossessarsi di voi. E allora sì, inizierete a sentirla proprio come June.
Heroic, nono episodio di questa terza stagione di The Handmaid’s Tale, ci accompagna in un viaggio introspettivo alle porte della pazzia. Quella vera, quella di June.
Ma facciamo un passo indietro. Dimatthew è la causa dell’esecuzione di tre persone innocenti e del trasferimento altrove di Hannah. Confessato il misfatto a June, viene punita dalle ancelle con l’emarginazione e una buona dose di bullismo. Una situazione difficile da affrontare per una donna nel bel mezzo di una gravidanza non voluta. Il risultato è un tracollo psicologico pubblico. Dimatthew aggredisce Janine e tenta di uccidere Zia Lydia, ma alla fine è lei a uscirne in fin di vita. In quest’episodio vediamo ciò che accade dopo. Una vicenda che delinea perfettamente il nucleo narrativo di The Handmaid’s Tale che tratta la considerazione delle donne. Un esempio pratico, visto attraverso gli occhi di June, di cosa esse siano per Gilead: dei “contenitori”.
Natalie è cerebralmente morta ma è incinta, pertanto non può smettere di essere Dimatthew. Non fin quando il bambino nel suo grembo non vedrà la luce. Non importa quanto poco etico, ingiusto o disumano sia il trattamento riservatole dai medici. A Gilead Natalie, come qualunque altra donna, non vale nulla che esuli dal suo ruolo fisiologico di contenitore di una nuova vita umana. Vale tanto per il suo corpo, senza ormai più coscienza, quanto per altre donne vive e vegete.
The Handmaid’s Tale ha sempre posto l’accento su tale dinamica. In questo episodio lo fa con prepotenza anche maggiore.
Heroic focalizza la nostra attenzione sul concetto di vita. Più precisamente su quello di “valore che si dà alla vita”. Una riflessione che si districa tra il cinico utilitarismo, la morale religiosa e l’umano buon senso. Tre punti di vista vissuti attraverso gli occhi rispettivamente dei comandanti – e dei medici – di Zia Lydia e di June. La narrazione si serve di elementi tecnici studiati al fine di mantenere la nostra attenzione fissa su questa dinamica. Riprese circolari attorno a June. Inquadrature in primo piano sui segni della sua esasperazione. Una fotografia priva di sfumature ma segnata da contrasti secchi tra i toni del rosso, del verde e del bianco. Una sorta di polarizzazione visiva dei tre diversi approcci raccontati.
I creatori di The Handmaid’s Tale imprigionano la nostra visione in quella camera d’ospedale assieme a June. Come se volessero farci percepire la stessa claustrofobia che la attanaglia.
Ci addormentiamo assieme a June. Ci svegliamo assieme a June. I nostri occhi sono fissi nel vuoto come i suoi. La luce bianca ci infastidisce. A tratti sentiamo lo stesso odore di disinfettante e ammoniaca della stanza. Le sbucciature alle ginocchia di June sono le nostre. Ci sentiamo intorpiditi come lei. Ci gira la testa. Canticchiamo la canzone di Belinda Carlisle assieme a lei. La volontà degli autori di The Handmaid’s Tale è fatta: la nostra attenzione è concentrata in modo totalizzante sul punto di vista June. Sul suo stato emotivo, sulle sue riflessioni. E partecipi di quanto si consuma tanto sotto i suoi occhi quanto sotto i nostri ci chiediamo:
Quando, come, e secondo quale criterio la vita ha davvero valore in questo mondo?
Si pratica retorica, preghiera e macelleria in favore della vita di un bambino ancora non nato. Ma cosa nè è della vita di chi lo porta in grembo? Di quella donna repressa, violentata e poi intubata senza interesse alcuno per il suo corpo. Ha valore l’esistenza vigile e animata di June? Costretta a pregare incessantemente, per mesi, al capezzale della compagna per fare ammenda. Si può considerare inviolato il “valore” dato alla vita di un’ancella portata sull’orlo della pazzia?
The Handmaid’s Tale ci ha raccontato fin dal primo episodio gli antefatti che hanno portato molte persone ad avere questo approccio dicotomico alla vita. La scarsa fertilità di uomini e donne e l’elevato tasso di mortalità infantile che minacciavano la prosperità della specie e della società. La necessità di ripopolare i paesi evitando l’estinzione del genere umano è stato un terreno fertile per i Figli di Giacobbe per imporre la propria egemonia e giustificare l’estremismo dei propri mezzi.
Ma l’incontestabile valore per la vita millantato dai sostenitori di Gilead si traduce in qualcosa di razionalmente insensato.
A fronte della priorità riservata alla nascita di nuove vite, il trattamento riservato a Natalie, quanto quello riservato a qualunque altra persona, è indiscutibilmente ipocrita. Una caratteristica tipica dei fanatismi religiosi. E la disumanità in cui si traduce questa dinamica concima il terreno dell’instabilità mentale di June. Il suo confinamento tra le mura asettiche di quella stanza fà il resto.
Nascono così le tendenze autolesioniste travestite da istinti omicidi. Prospera l’umano istinto di sopravvivenza mescolato con intensità uguale e opposta alla pietà per la compagna in coma. Laddove Zia Lydia ripone nella preghiera la speranza di salvezza, quella di June si concentra su ciò che può mettere fine a questa vita. Poichè la vita a Gilead non sembra godere di alcunchè del valore millantato dai Figli di Giacobbe. Persone che vedono nell’esistenza stessa una sacralità che non temono di opprimere con violenza e repressione.
Dov’è il senso di ritenere intoccabile la vita che sarà senza dar importanza alla vita che già esiste? C’è una ragione se Holly Maddox, medico e madre di June, metteva sempre al primo posto le sue pazienti: le madri. Persone senzienti, in vita. In un paese che reprime violentemente il pensiero, la libertà d’essere e le scelte, agli occhi di June è la morte l’unico sollievo.
In questo episodio The Handmaid’s Tale mostra l’appendice della sua nuova fase di Resistenza: la speranza che muore. La mente che si arrende. L’umana disperazione.
Il cervello di June è atrofizzato dal confinamento. La sua fiducia uccisa dalle ulteriori conferme di un sistema la cui ingiustizia non smette mai di sorprendere. Ma quando il suo spirito sembra aver toccato il fondo una luce di speranza sembra riaccendersi in lei. Quando l’assuefazione alla disperazione sembra ormai parte di lei, le poche parole di una ragazzina la riportano indietro. Gilead prepara le sue adolescenti a essere nuovi contenitori della patria. Il loro sviluppo emotivo non conta a fronte di quello genitale. Ragazzine troppo giovani sono costrette a desiderare che la maternità sia fulcro unico delle loro vite. L’idea che in questa realtà ci sia anche Hannah è qualcosa che June non può accettare.
Dopo le parole della ragazzina il saluto di June a Natalie è accompagnato da una nuova consapevolezza in merito a ciò che la donna è stata. A ciò che l’ha spinta a un’inspiegabile devozione prima, e al crollo poi. “Qui riescono a toglierti proprio tutto eh?” June lo ha provato su se stessa in quelle settimane di veglia forzata. Lo ha visto negli occhi di quella ragazzina. E lo ha ricollegato alle scellerate azioni di Dimatthew. Gilead non toglie solo la libertà, ma anche il pensiero ragionato.
Chi non si ribella finisce per essere quello che Natalie fu: un contenitore privo di razionalità. Prima che complice, una vittima.
Acquisita questa nuova consapevolezza June lascia il capezzale di Natalie con una nuova promessa di ribellione. Compreso quanto molte vittime di Gilead siano oppresse con il lavaggio del cervello più che con la violenza la donna decide di non arrendersi. Potrà forse non rivedere più Hannah, ma non ha intenzione di lasciare sua figlia tra le vittime non violente del regime.
In questa puntata di The Handmaid’s Tale la staticità assume un ruolo ben preciso: dare un’idea più completa dell’esteso sistema d’oppressione di Gilead.
Un’immagine che dia a noi maggiore consapevolezza delle sue implicazioni, e a June nuova forza per reagire. Laddove Hannah, la ragione per restare e combattere, sembra esser ormai andata, la storia le fornisce nuove motivazioni per non demordere. La promessa di ribellione di June è la risposta alla domanda del medico su come intenda onorare la vita delle sue figlie. Uccidere Serena o chiunque altro non produrrebbe alcun effetto utile. Ma portar via da Gilead quanti più bambini possibile potrebbe. Un atto d’amore.
Dicono che in paradiso l’amore venga per primo, renderemo allora il paradiso un posto del mondo.
Sembra quasi che i creatori di The Handmaid’s Tale abbiano voluto preparare il terreno per un nuovo colpo di scena.
La speranza che questo accada, rimescolando le carte scoperte finora, è tanta. D’altronde la maniacale attenzione al dettaglio emotivo è lodevole ma male integrata col ritmo della narrazione, che infatti ne risente ormai da diverse puntate. Non ci resta che sperare che il rinnovato fuoco della ribellione di June rinnovi altrettanto il corso degli eventi.