Finalmente ci siamo. La serie più disturbante degli ultimi dieci anni è tornata. The Handmaid’s Tale 4 inizia laddove la serie ci aveva lasciati nel finale della scorsa stagione. Sono passati due anni ma è difficile dimenticare l’intensità di quel momento. L’aereo carico di bambini che decolla lasciandosi dietro June, ferita a morte ma sorridente, trasportata dalle altre ancelle come una moderna versione del Cristo Salvatore.
Il primo episodio di The Handmaid’s Tale 4 riprende quei moementi concitati e li addolcisce con le note di Aretha Franklin. Il punto di vista è quello della stessa June e la sensazione dev’essere probabilmente la stessa che si prova un attimo prima di morire. Quando la paura lascia spazio a un’inconsapevole serenità.
Ma la bolla che pervade la mente di June fa presto a scoppiare. La donna viene subito catapultata indietro, nella realtà di una vita appesa a un filo. A riportarcela le fedelissime amiche, sorelle ormai. Le altre ancelle cauterizzano la sua ferita per strapparla dalla morte. Finalmente è tempo per tutte loro di mettersi in salvo. The Handmaid’s Tale 4 ci accompagna così, tra la neve, verso il covo nel quale June troverà guarigione e salvezza assieme alle altre.
Dall’atro lato della contea non così gentile sembra esser stato il comando di Gilead, che nel frattempo ha interrogato Zia Lydia in merito alla fuga dei bambini. Per ben 19 giorni. A giudicare dallo stato del suo viso non sembrano esser stati giorni facili per la donna. Ma la sottomissione che la legge le impone la porta finanche a ringraziare i comandanti esaminatori per “la misericordia mostrata nei suoi riguardi”. Sono le ancelle le “pu**ane peccatrici, ormai più causa di guai che di benefici”. E ancora una volta il sentimento di “protezione” provato per loro da Zia Lydia risulta ambiguo.
“Solo angeli corrotti da un’unica peccatrice”, June, è l’idea che ha la donna delle altre ancelle. Plagiate da colei che ormai merita il cappio di Gilead. La sua preghiera è una sola: trovarla e portarla da lei.
Una frase che ci fa tremare. Una realtà che temiamo essere imminente quanto lo teme Fred Waterford dall’altra parte del continente americano. Lui, ormai detenuto dello stato canadese assieme a Serena Joy, sembra nonostante tutto ancora preocccupato per lo stato di June. A differenza della moglie che non riesce a nascondere un sorriso dinanzi alla constatazione di Fred del rischio di esecuzione che pende sulla testa di June dopo la fuga dei bambini. “Che Dio abbia pietà dei lei”. Come se le azioni umane fossero sempre e comunque frutto di un Dio responsabile di ogni cosa.
E mentre i comandanti interrogano, torturano, rastrellano e il Canada cerca di evitare una guerra nel tentativo di mettere al sicuro gli 86 bambini scappati senza restituirli a Gilead, June si sveglia per la prima volta dopo tempo in un piccolo angolo di serenità. In un letto amico, al caldo e all’asciutto, ancora dolorante ma sempre in grado di rificlarci qualche ironica riflessione come al suo solito.
The Handmaid’s Tale 4 ci regala qualche momento di serenità con la visione di questa June finalmente al sicuro. Eppure non manca un’intrinseca sensazione di fretta. La fretta per June di rimettersi in piedi e continuare a lottare per una sicurezza sempre in pericolo.
“Il dolore rende piccolo il mondo. Il mio mondo ora è questa stanza. ma il mio mondo non può essere piccolo, non ora. Gilead non ha paura, e non smetterà di cercarci mai e poi mai.”
È quasi soffocante quella sensazione di non essere mai al sicuro. June si rimette in piedi e attraverso i suoi occhi scopriamo che l’ambientazione chiave del primo episodio di The Handmaid’s Tale 4 è una fattoria fuori porta di proprietà del comandante Keyes. Sua moglie Esther è la giovanissima alleata del Mayday, la stessa che, sfruttando la demenza senile (e dunque totale inconsapevolezza) del marito, ha dato rifugio alle ancelle fuggitive.
Esther è una ragazza decisa e risoluta per la giovanissima età. Il suo entusiasmo e il suo desiderio di vendetta contro Gilead sembrano cozzare profondamente con una June ancora provata, consapevole del pericolo e più propensa al basso profilo che ad azioni aperte. Il rischio è alto ed Esther non sembra capirlo.
The Handmaid’s Tale 4 la presenta come una novità portatrice di buone prospettive. Un porto sicuro, un’alleata, una salvezza. Disposta a combattere come e più delle ancelle.
Ma come tipico di una serie che raramente ci ha risparmiato spesse linee d’ombra anche nei momenti più timidamente speranzosi, la giovane padrona di casa mostra subito il suo lato più ambiguo. Uno sguardo tetro, la riluttanza a essere contraddetta, un’inquietante predisposizione alla crudeltà della vita in fattoria. E ancora peggio, una violenza che esplode senza freni a fronte di pretesti insignificanti. Il suo modo di forzare Janine a un pasto indesiderato mostra un disagio presto svelato.
Quando June l’affronta, ormai risoluta a non accettare ulteriori brutalità, scopre assieme a noi l’origine del disagio di Esther. Qualcosa che lei conosce molto bene e che sa quanto intensamente possa alterare uno spirito. Lo stupro sistematico, reiterato e subito non solo dall’anziano marito ma da chiunque questi volesse portare in casa. Guardiani, Occhi, altri comandanti.
Nella conturbante rabbia di Esther Keyes si nascondono i segni della brutalità inferta da Gilead a ogni donna che ancora potesse partorire un figlio. La sua intensa devozione a June riflette il desiderio di vendetta verso il sistema e gli uomini che hanno fatto di lei una schiava sessuale. Nonostante la giovane età Esther si è ormai lasciata alle spalle ogni innocenza. Esattamente come June si è ormai lasciata alle spalle ogni riluttanza a compiere atti che un tempo non le sarebbero mai potuti appartenere.
The Handmaid’s Tale 4 apre questo capitolo della serie ricordandoci subito cosa il dolore e la violenza reiterati siano in grado di fare a una persona. A una qualunque persona.
Giovane, adulta, religiosa, poco importa. Per coloro che si oppongono al regime esiste ormai un ‘io’ prima e dopo Gilead. Tutto ciò che si è stati prima di Gilead sembra ormai esser svanito per lasciar posto a ciò che un regime di violenza ha fatto degli oppressi. È ormai chiaro che alla brutalità non si possa rispondere con i fiori, e mai come adesso la violenza sembra portare porta violenza.
Lo vediamo nell’accanimento cieco delle ancelle che pestano il guardiano catturato dai soldati loro alleati e portato alla fattoria di Esther. È uno dei suoi stupratori. Si fa presto a riconoscerlo quando si ha sete di vendetta. June è ormai leader e comandante del gruppo a tutti gli effetti: una sua parola ed è subito azione. La violenza delle ancelle si placa solo quando interviene quella più calma e ragionata di una June ormai consapevole di quella verità: dalla brutalità non ci si può nascondere. La si combatte. E lo si fa utilizzando la stessa moneta.
Nella stalla in cui il guardiano viene legato come il maiale ucciso il giorno prima, comprendiamo davvero cosa Gilead abbia fatto delle ancelle, di June, di una ragazzina come Esther. Delle assassine, e per di più, assassine con giustificazioni difficili da negare.
Lo sguardo di June è vitreo come le parole con cui invita Esther a prendersi la sua vendetta. “Make me proud”. Nella nostra mente l’inquietudine di quanto si stia consumando. La paura di ciò che June sia diventata, la consapevolezza di quanto ciò fosse inevitabile e forse necessario. La lotta interiore tra il rifiuto della violenza e la rabbia verso un uomo che resta uno stupratore, servo di un regime senza pietà.
Non importa chi tu sia. Gilead farà di te un’altra persona, una che mai avresti immaginato. Se ti opponi farà di te un assassiono per necessità, uguale e diverso dagli assassini che combatti. E se la sostieni, farà di te un maiale. E se sarai sfortunato, morirai come tale. Ma un maiale è cibo offerto da Dio, e nell’atto di nutrire si rende degno della lode di chi crede. Mentre un maiale come il guardiano Paul morirà nutrendo il desiderio di vendetta di chi ormai non ha più un’anima da nutrire.
Questo è tutto ciò che è rimasto di Esther. Questo è forse tutto ciò che è rimasto di June. A mantenerle umane, un affetto che ha le sembianze di un rapporto madre-figlia, tutrice-protetta. Non quello che nasce tra due persone in un mondo “normale”. Ma quello alterato da condizioni esasperate. Quello che rende una la madre putativa dell’altra e quest’ultima l’anima sperduta alla ricerca di una guida da seguire e venerare. L’unica forma di affetto rimasta nella solitudine della lotta ai maiali di Gilead.