Il secondo episodio di The Handmaid’s Tale 4 non ci risparmia già nei primi minuti uno dei sentimenti più frequentemente offerti dalla serie: l’ansia. I controlli in casa Keyes fanno presto capire a June che restare lì non è sicuro. Nonostante l’incredibile capacità di dissimulazione di Esther, calma e decisa nell’accoglienza offerta ai soldati, risulta chiaro che l’isola felice delle ancelle abbia ormai raggiunto la sua data di scadenza.
Le conversazioni giungono alla conclusione che trovare un altro posto offerto dal Mayday sia l’unica soluzione, e così tramite il guardiano alleato delle ancelle June riesce a ottenere un nuovo contatto dal movimento di resistenza a Gilead.
Torna così in The Handmaid’s Tale 4 un’ambientazione che abbiamo conosciuto nella prima stagione: Jazebel. Un posto in cui le perversioni dei potenti trovano sfogo lontano dal fanatico proibizionismo imposto da loro stessi al resto del paese.
È lì che June conosce la donna del Mayday che le fornità un nuovo posto in cui mettersi al riparo, ed è lì che June partorirà un’altra delle idee che l’hanno resa ormai elemento pericolosissimo per Gilead nelle offensive al regime. La vista dei comandanti, una location sui generis e degli alleati a portata di mano. June ci mette poco a capire quanto questa sia un’occasione d’oro per colpire Gilead, ancora una volta, proprio quando si sta preparando a una guerra che ha bisogno di vincere.
La disillusione della sua nuova alleata, schiava di Jazebel, è forte e palpabile. Violenza, repressione e schiavismo sessuale hanno fatto di lei quasi un corpo senz’anima. Persino la speranza nello stesso Mayday cui appartiene si è sopita da tempo. Ma ancora una volta è la fresca grinta di June a intervenire per ricordarle che il Mayday non agisce da chissà dove come farebbe un’armata. Ogni oppositore di Gilead è un “potenziale membro del Mayday”, in grado in qualche modo di far qualcosa per indebolire il regime che lo opprime. Non a caso si chiama ‘resistenza’.
E infatti in questo episodio The Handmaid’s Tale 4 vuole ricordarci come ci sia anche nell’oppressione una libertà fondamentale rimasta a ognuno: la libertà di ribellarsi.
Come anche la libertà di decidere di non farlo, di restare al proprio posto cercando come meglio possibile di preservare la propria vita e la propria incolumità. E poi c’è la libertà di agire, pur consapevoli delle conseguenze che potrebbero giungere in caso di sfortuna. La libertà resta un argomento centrale, osservato da più punti di vista, per tutta la durata del secondo episodio di The Handmaid’s Tale 4.
C’è la libertà di June di voler andare ancora all’attacco diretto di Gilead mettendo a rischio se stessa e le sue compagne. La libertà della sua nuova alleata di seguirla o meno nell’impresa.
E dall’altro lato del confine c’è invece la libertà di Rita, la stessa che la donna – provata da anni di tacita sottomissione – fatica a riprendersi, o per lo meno, a riconsiderare come qualcosa di scontato. Rita sembra ancora oppressa da quella mancanza di scelta in cui Gilead l’aveva ingabbiata, come appare chiaro nell’approccio rivolto a Moira, a Luke e all’audience canadese che ascolta la storia della sua fuga.
“Libertà significa essere liberi di dire di no”
Anche a un gentile invito a parlare. Sembra quasi incredibile che sia necessario un aiuto esterno da parte di Moira per ricordare a Rita cosa significhi davvero “essere liberi”.
E poi c’è la libertà di Serena di decidere come riprendersi la propria dopo le accuse di Fred. L’unica soluzione per i suoi avvocati sarebbe stabilire un percorso di abusi domestici cui la donna possa dire di esser stata sottoposta dal marito. E dal percorso medico che aiuterebbe ad accertarli emerge la profonda ambiguità della “libertà” offerta alle mogli dalle leggi di Gilead. Le stesse cui Serena ha deciso volontariamente di sottoporsi e che ha finanche contribuito a creare.
“La punizione appropriata imposta per legge da Gilead” è forse il più agghiacciante dei modi con cui Serena avrebbe potuto descrivere razionalmente la sua scelta di supportare un regime in cui “un abuso non è un vero abuso ma è… complicato”. Come se l’abuso avesse la stessa natura “normalmente controversa” di una dinamica familiare qualunque. Ma è nel dialogo successivo tra Fred e Serena che la serie riesce ancora una volta a mostrare l’ambiguità della signora Waterford.
Ovvero quando The Handmaid’s Tale 4 porta alla luce tutta l’ipocrisia del fanatismo sul quale le leggi di Gilead si fondano. Ma soprattutto quella con cui donne come Serena vi convivono.
L’ipocrisia di una Serena che supporta l’ideologia di Gilead opponendosi tuttavia alla mancanza di libertà impostale. Un atteggiamento di fronte al quale l’ambiguità di Fred, forse per la prima volta, decade assieme alla sua storica mancanza di spessore. Quella che l’ha reso un uomo debole, facilmente manipolabile dalla moglie, e incline a una violenza alla quale ogni debole alla fine cede per colmare le proprie insicurezze.
Tuttavia è proprio dopo il fallimentare dialogo tra i due coniugi che The Handmaid’s Tale 4 ci regala uno dei più incredibili plot-twist della serie: la gravidanza di Serena.
Una notizia inaspettata, che lascia tanto lei quanto noi in preda a una sopresa viziata da un’unica domanda: “e adesso?” La stessa domanda che finiamo per porci quando l’episodio ci porta nella nuova casa di Asher/James, uno dei bambini salvati da June. Ora sotto la custodia della zia. La sua cupezza, la nostalgia verso gli unici genitori che ricorda, verso l’ambiente che lo ha cresciuto, plasmato e plagiato in tenera età, è una realtà con cui non avevamo pensato di dover avere a che fare.
The Handmaid’s Tale 4 ci riporta – proprio come altri episodi hanno fatto in passato con Moira o Emily – alla triste consapevolezza di quanto vasti e radicati possano essere i danni causati da Gilead. Danni in grado di estendersi ben oltre il raggio d’azione della sua oppressione diretta, ma che si allargano anche alla vita che viene dopo la “liberazione”. Quando ci si ritrova a gestire una libertà che ci si era dimenticati di avere.
Moira lo sa bene. E sa anche meglio come la sua adulta consapevolezza sia molto lontana dall’ingenua comprensione della realtà di un bambino che vede attorno a sè semplicemente un ambiente che non conosce, diverso dall’unica casa che ricorda. Un bambino, Asher, privo degli strumenti necessari a comprendere che per quanto forte sia la nostalgia, sentirsi soli in Canada sia per lui molto meglio che sentirsi in compagnia a Gilead.
The Handmaid’s Tale 4 ci parla della libertà anche in questo modo: ricordandoci quanto sia facile dimenticarla e quanto difficile possa essere gestirla una volta riottenuta.
E poi ci regala una delle scene più epiche della serie. Senza dubbio una delle più soddisfacenti. Difficile descrivere in altro modo la sequenza che vede June avvelenare le bottiglie degli ingordi comandanti in “vacanza” a Jazebel con l’intruglio insegnatole da Esther. Una ragazza che, insieme al disagio, ha sviluppato anche le più sopraffini tecniche di sopravvivenza e attacco al nemico nella vita di campagna.
In The Handmaid’s Tale 4 è tempo di azione, di vendetta e di libertà afferrata con ogni mezzo, a qualunque costo. Perché in fondo è meglio morire sulle prorie gambe che vivere in ginocchio. E per quanto la sequenza della follia di Jazebel ci riempia di speranza, purtroppo Gilead fa presto a rimettere in ginocchio quella June in lotta sulle proprie gambe.
Il tempo del sollievo sembra essere già finito in The Handmaid’s Tale 4.
La libertà di casa Keyes lascia spazio al buio, al silenzio, all’oscurità dalla quale proviene il proiettile che uccide sul colpo il guardiano alleato di June e i mirini di diverse armi che puntano dritto su di lei. Rossi come la tunica che marchiava il suo status, come il sangue di nuovo sulla sua pelle. E intensi come la scena finale con cui la serie ci annuncia che i guai per June devono ancora iniziare. E che, nonostante le parole di Nick (autore dell’arresto), non promettono nulla di buono.
Leggi anche: The Handmaid’s Tale 4 –