In caso qualcuno ne nutrisse ancora, l’episodio 5 di The Handmaid’s Tale 4 ha fugato ogni dubbio in merito all’evoluzione della serie. La storia iniziata quattro anni fa ha imboccato una nuova strada dando alla serie di Bruce Miller una nuova direzione. E quella direzione muove sempre più verso un nuovo livello di distopia, in cui la vita di June e di chiunque la circondi è ora più che mai immersa in un’attiva resistenza. Alle quotidiane brutalità di Gilead si sono sostituite ora le brutalità della guerra, i lati oscuri della rivoluzione e quelli ancor più oscuri del contrattacco. Ma non solo.
Se le precedenti stagioni volevano portarci nella mente del regime, attraverso la visione di oppressi ed oppressori, The Handmaid’s Tale 4 ci accompagna lungo il tragitto che porta al salto di qualità, quello che oltre alla mera visione esterna ci spinge a riflessioni sempre più profonde su temi che di fittizio in sé hanno ben poco.
Perché se la storia è ancora frutto di una distopia, la sua evoluzione propone in questa quarta stagione spunti di riflessione incredibilmente reali. Come quelli legati alle dinamiche della guerra, alle implicazioni internazionali, alla logistica della sopravvivenza e al concetto di consenso. È come se The Handmaid’s Tale 4 volesse ricordarci che anche una distopia è fatta di sentimenti e pensieri perfettamente riscontrabili nella realtà. Che la realtà stessa resta la principale fonte di ispirazione di qualunque distopia.
Chicago parte in sordina. Si mostra inizialmente come una puntata più lenta, statica, concentrata su una sorta di mostra delle atrocità. Ci racconta a grandi e piccole linee la sostanza della guerra, elemento fondamentale di questo episodio e, a quanto pare, dell’intera stagione.
Se finora abbiamo vissuto di ancelle, mogli, comandanti, “cerimonie” e piccoli atti di resistenza, The Handmaid’s Tale 4 ci mostra l’altro lato della distopia. Quello che, proprio come June, finora avevamo solo potuto immaginare.
Niente più racconti di guerre civili lontane, di soldati e bombardamenti, ma la visione diretta di cosa sia la guerra. June ne vede e vive gli effetti per la prima volta, e noi con lei. Attraverso le luci delle esplosioni in piena notte, il frastuono delle bombe, gli aerei e i combattimenti sul campo. Adesso la resistenza non si fa più solo a bassa voce, sussurrando parole d’ordine da dietro le cuffiette bianche delle ancelle. La resistenza di Chicago è fatta di rifugi arrangiati, di vestiti sporchi, di baratto con altri gruppi di resistenza. È fatta di stanze, letti ed esperienze condivise controvoglia ma necessari alla sopravvivenza.
Persino l’amore, nel mondo creato dalla resistenza, ha il sapore della miseria. Come quello che fanno Janine e Steven (non troppo) di soppiatto in un letto appena accanto quello di June. Quanto è diverso un simile scambio di corpi dall’amore luminoso che legava June e Luke in un mondo in cui erano liberi di amarsi, liberi da ogni forzatura o necessità di sopravvivenza.
E tra tutti gli scenari post-apocalittici di Chicago, impariamo qualcosa che può sembrare banale ma non è troppo scontato quando ci fai i conti in maniera diretta. “Resistere”, in qualunque modo lo si faccia, non sempre è popolare tra chi ti sta attorno. C’è chi, come June, considera la resistenza un’azione attiva, che non riposa mai, che opta sempre per l’offensiva. E chi come Steven, invece, la considera un’operazione in cui gesti eclatanti e forse irresponsabili fanno posto a un’azione lenta e misurata, in cui è la sopravvivenza ad avere il primo posto.
Ma a prescindere dalla scuola di pensiero, ognuno dei due finisce per scontrarsi con idee opposte, con critiche, sfiducia e, nel caso peggiore, con l’odio dei propri simili.
Steven si ritrova ad affrontare la sfiducia di June (più che giustificata) nonostante un approccio alla guerra che sia chiaramente frutto dell’esperienza maturata sul campo dopo anni di resistenza. E June, invece, si scontra con la frustrazione di chi come Janine ha visto il suo comportamento portare sì a grandi azioni (come la fuga dei bambini) ma anche a tragedie conclusesi nel peggiore dei modi.
È chiaro che le inevitabili conseguenze delle azioni di June, come la morte di Alma e Brianna, siano destinate a perseguitare la sua reputazione e la sua coscienza. E se un’amica come Janine alla fine finisce per restare comunque al suo fianco tanto per affetto quanto per ammirazione, c’è chi in lei vede l’irresponsabile per la quale tante donne coraggiose hanno perso la vita. È il costo dell’azione, il prezzo da pagare – finché si è in vita – quando si opta per una resistenza attiva. In fondo si sa che “per essere leggende prima bisogna essere morti”.
Ma d’altronde i temi controversi sembrano essere uno dei leitmotiv di The Handmaid’s Tale 4. Controversa è la posizione di chi resiste, controverse possono essere le sue scelte e controversi sono anche gli altri temi che Chicago ci propone.
L’emergere della figura di Janine approfondisce temi che non ci risultano nuovi e che, come citato prima, ritroviamo al centro di infinite discussioni nel mondo reale. Il tema del ‘consenso’ emerge a chiare lettere nella relazione della donna con Steven. Una relazione nata da un ricatto messo sul piatto (nello scorso episodio) col candore con cui un locatore riscuoterebbe l’affitto mensile dal suo inquilino. E al tempo stesso da quello che sembra un bisogno primordiale di Janine di godere di una forma di affetto, genuino o alterato che sia.
Se a prima vista la questione sembra avere la fluidità del discorso in cui Janine afferma con decisione di aver scelto volontariamente di andare a letto col suo “protettore”, in realtà si fa presto a capirne le lacune. Basta porre un pizzico di attenzione in più per capire che un consenso come quello di Janine sia viziato da una lunga serie di traumi.
Da una voragine affettiva nata molto prima di Gilead. Dal vuoto ancor più profondo che la affligge da quando le è stato rubato il diritto alla maternità, e con esso i propri figli. E da un impellente bisogno di protezione, di vicinanza a qualcuno che, come June e solo brevemente (e in modo per lo più illusorio) come Steven, la faccia sentire al sicuro. Entra in gioco lì la responsabilità di chi, approfittandosi di inconscie debolezze, decide di non dar peso alle ragioni del consenso. E di chi invece decide semplicemente di rispettare spazi e bisogni altrui. Proteggendoti se necessario, o lasciandoti andare.
The Handmaid’s Tale 4 afferra a piene mani l’occasione di ricordarci le basi di questo concetto. E lo fa raccontadoci una storia che mette a confronto un protettore (Steven) che dà riparo sfruttando delle debolezze a proprio favore, e una protettrice (June) che lo fa senza chiedere nulla in cambio.
È l’essenza dei puri di cuore, tali anche al netto delle proprie sfumature di grigio. A differenza dei millantatori di tale innocenza che a Gilead tra una preghiera e l’altra vivono di ricatti, segreti e macchie da celare per mantenere il proprio potere.
Chicago ci mostra la guerra a tutto tondo. Nono solo il campo di battaglia, ma anche ciò che c’è dietro. Le strategie, i piani spietati di chi vive la guerra da lontano, in giacca e cravatta da dietro una scrivania. Come se la guerra non fosse un ammasso di morte e disperazione ma un’equazione matematica.
Nei palazzi di potere di Gilead tale è considerato quello scontro al fronte. Da chi, come i comandanti, osserva la situazione con la con miopia di chi raderebbe al suolo ogni angolo di vita rimasta (compresa la propria) pur di vincere. E da chi, come Lawrence, sembra nutrire preoccupazioni morali sempre pronte a passare in secondo piano rispetto alla sopravvivenza economica di Gilead.
Quello di Joseph Lawrence si conferma un personaggio ricco di chiaroscuri che avrebbero tutto il diritto di essere meglio esplorati. Giudicare da che parte stia è sempre difficile. Alla fine sembra che sia il suo desiderio di plasmare Gilead secondo la sua dottrina economico-politica la vera ragione ultima delle sue azioni. E sembra che quella ragione alla fine passi sopra qualunque cosa, anche sulla vita degli innocenti.
Nulla di sorprendente. Per quanto a tratti “illuminato” Joseph Lawrence resta sempre uno dei padri fondatori dell’inferno di Gilead. Nessuno più di lui conosce il “costo del business”. E nessuno più di lui sembra essere disposto a pagarlo per ottenere ciò che vuole.
Che è qualcosa di più elaborato dei sentimenti primordiali che influenzano invece le scelte di Nick o di Zia Lydia. Figure immensamente diverse tra loro e comunque accomunate da una forma – malata o meno – di amore, verso un ideale o verso qualcuno cui si tiene. Da una parte un astro nascente in cerca di un equilibrio tra i propri doversi verso Gilead e il proprio amore verso June. Dall’altro, una stella ormai in caduta, relegata a tapis roulant e carte da gioco con la scusa del divino regalo del riposo.
In mezzo, niente che abbia a che fare con la purezza di quella Vergine tanto adorata, con la semplicità del focolare domestico auspicato dal fanatismo religioso di Gilead. Ma solo il marcio dell’essere umano, ripescato a convenienza e nascosto sotto le vesti della solita chiamata divina. Ricatti, scambi di favore e abusi di potere degni di quella stessa società che i “candidi” Figli di Giacobbe volevano tanto abbattere.
A farne le spese, i civili al fronte. Che pagano sulla propria pelle il prezzo degli affari dell’alto comando. The Handmaid’s Tale 4 ci mostra attraverso la loro sofferenza la sostanza della guerra.
Il pericolo dal cielo, le esplosioni, la polvere soffocante, la pelle annerita, il ronzio nelle orecchie, la paura, lo smarrimento, le urla in lontananza. Le voci di chi cerca i propri cari gridando il loro nome tra le macerie. Tutta la devastazione servita sul nostro schermo attraverso gli occhi di June. Attraverso la separazione da Janine, sotto i colpi delle bombe, appena dopo il loro ricongiungimento. Ancora una volta June vive il terrore di un fallimento, quello che nasce dal non esser stata in grado di proteggere Janine perché qualcosa di più grande ha spazzato via i suoi tentativi.
Ma quando tutto sembra perduto e le note di Fix You accompagnano l’ennesima lacrima che riga il nostro viso, una visione del tutto inaspettata appare tra le macerie: Moira. Volontaria di quegli aiuti internazionali tanto auspicati da Lawrence. Immobile e scioccata davanti a June. Le due donne si guardano, incredule, quasi inebetite. A loro non resta che il silenzio, e a noi un gran numero di brividi lungo la schiena.