Per quanto l’orrore di Gilead fosse insopportabile, scappare dal paese è stata una scelta dolorosa per June, una madre costretta a lasciare indietro la propria figlia. E non sembra esistere libertà che tenga il confronto col senso di vuoto lasciato da una separazione avvenuta ormai troppi anni prima. Non esisterà pace, sollievo o felicità per June finché la famiglia non sarà al completo, finché Hannah non sarà al sicuro, fuori da Gilead, tra le braccia dei suoi veri genitori. The Handmaid’s Tale 4 ha posizionato ogni giocatore sul giusto quadro della scacchiera, ora non resta che giocare.
Salvata la vita e riunitasi finalmente a Luke e Moira adesso a June non resta che un’ultima battaglia da combattere: riprendersi Hannah.
Più facile a dirsi che a farsi. Negoziare con Gilead sembra essere trasversalmente complicato. Nessuno sembra avere un reale vantaggio, in nessuna posizione, ed è come se Gilead esistesse come un’entità a se stante, pretenziosa e testarda, priva di persone che la guidino oltre il percorso del mero fanatismo religioso o del più subdolo cinismo. Trovare una soluzione per tirar fuori Hannah, combattendo dall’esterno, non è semplice. Avere qualcuno che lo faccia da dentro è indispensabile.
La soluzione più immediata agli occhi di June sembra rivolgersi all’unico uomo di potere che le abbia mai mostrato un minimo di misericordia: Joseph Lawrence. Ma è chiaro che non sia la misericordia la sua migliore virtù, bensì la più cinica praticità, l’unica in grado di favorire gli interessi di Gilead.
The Handmaid’s Tale 4 ci mostra ancora una volta il lato più oscuro di un personaggio che nella scorsa stagione avevamo creduto fosse molto più umano di così. O semplicemente ci mostra quanto ognuno a Gilead – Lawrence compreso – debba fare dei compromessi per proteggersi.
Compromessi che a uomini del genere, tuttavia, sembrano un gioco da ragazzi, ma che risultano sempre più inaccettabili a chi sia riuscito a mantenere un briciolo di umanità. Il sarcasmo di Lawrence durante la negoziazione telefonica col fronte canadese non riesce ad addolcire la pillola e per quanto la proposta tenti gli istinti più egoisti di June e Luke, rimandare 10 dei bambini fuggiti l’anno prima in cambio della sola Hannah, non è accettabile. Ed è quanto di più crudele si possa infliggere a un genitore disperato.
L’aiuto di Lawrence non è dunque un’opzione percorribile e l’unica carta rimasta da giocare è quella che Luke avrebbe voluto evitare a tutti i costi: Nick. Ormai comandante di Gilead, uomo di potere, e notoriamente legato a June. Per l’uomo è arrivato il momento del primo difficile compromesso: sapere la propria moglie tra le braccia dell’uomo che è riuscito a farle battere di nuovo il cuore.
Luke è perfettamente consapevole delle dinamiche che legano Nick e June. Dal dialogo intavolato con la moglie emerge tutto il suo disagio, la frustrazione, il timore che la distanza tra se stesso e June sia ormai molto più ampia di quella tra lei e Nick. E nonostante ciò, nelle sue lacrime c’è l’accettazione più amara e consapevole di quanto questa sia la realtà, di come rappresenti ormai l’unica strada percorribile per riavere Hannah, l’unico pezzo non negoziabile del puzzle.
Di tutto ciò ne è consapevole la stessa June, ormai conscia dei danni procurati dal tempo e dagli eventi. Forse lei e Luke non saranno mai più gli stessi e forse quello che c’è con Nick è l’ultimo spiraglio d’amore concessole da The Handmaid’s Tale 4.
L’incontro tra i due è pregno di quella chimica che ormai sembra esser svanita tra Luke e June. Della tenerezza tipica dell’amore, e di quel calore familiare che solo due persone davvero innamorate sono in grado di creare. L’incontro ai confini canadesi avviene nella neve, nella discrezione che lo stesso Luke sapeva fosse giusto lasciar loro. E la sua incredibile forza di comprensione si può dire venga premiata dalla benevolenza di un Nick che non ha bisogno di farsi avanzare alcuna umile proposta, ma che si presenta con tutte le informazioni necessarie su Hannah.
Dopo la chiusura di Lawrence, Nick sembra riaccendere la speranza negli occhi di June. L’incontro tra i due ha il sapore della più genuina umanità, della dolcezza e dell’affetto. Ma anche del rimpianto. Quello di non essersi dati una chance, di non esser scappati assieme quando possibile, di esser costretti ormai a dirsi addio. Nessuno più di Nick sembra essere in grado di accettare la crudeltà degli eventi con la tranquillità di chi sa di non poter fare altrimenti.
Per quato l’addio a June e Nichole gli costi fatica e dolore tutto ciò che riesce a dirle è l’augurio di felicità, lo stesso che sulle labbra di Lawrence aveva un sapore decisamente più sprezzante. Quello di Nick invece viene dal cuore, ed è consegnato a June con la speranza che almeno lei riesca a trovare la felicità che forse lui non avrà mai, nonostante la fede al dito accuratamente nascosta, e il potere acquisito in un paese che anche lui ha contribuito a creare.
Ma questo episodio di The Handmaid’s Tale 4 parla di compromessi che non lasciano scampo a nessuno, di compromessi che chiedono a tutti un prezzo da pagare.
Quello di June è l’addio a un uomo che non avrebbe comunque potuto amare. Non in Canada e men che meno a Gilead. Quello di Luke è l’accettazione di quanto le cose siano irrimediabilmente cambiate, di come questo non sia colpa di nessuno dei due. Ma in Canada qualcun altro si trova a fare dei compromessi. Qualcuno come i coniugi Waterford, troppo a lungo convinti che bastasse la forza di un’idea a garantir loro potere e protezione.
Che la vita non funzioni esattamente così lo comprendono quando nel loro isolamento giungono due “care” conoscenze da Gilead: Warren e Naomi Putnam. Due devoti Figli di Giacobbe che si presentano alla loro porta con la dolcezza dell’agnello, ma celando dietro il sorriso di circostanza le intenzioni del lupo. In modi diversi e ugualmente subdoli i due coniugi fanno capire a Fred e Serena di come Gilead non possa che mandar loro “pensieri e preghiere”. Pensieri e preghiere che però non sono moneta di scambio in Canada.
Gilead non è disposta a rischiare per nessuno dei due, e se risucisse a rimettere le mani su Serena ne farebbe un’ancella (nel migliore dei casi) poiché peccatrice secondo le leggi dello Stato. Tutto ciò che Gilead sembra disposta a fare per loro ha il sapore di una minaccia, quella terribile di portar loro via il bambino nel grembo di Serena, considerato già “proprietà di Gilead”. Tutto a un tratto il valore dell’ideale sembra svanire e la collaborazione con il Canada assume agli occhi di Fred Waterford una soluzione molto migliore rispetto a quella di tornare nel paese cui aveva giurato devozione.
Anche per gli Waterford è tempo di scendere a compromessi con i propri ideali, per salvaguardare non solo la propria libertà ma anche il più sospirato dei desideri: l’occasione di essere genitori.
Ma il loro compromesso si scontra a muso duro con quello cui dovrebbe scendere June: vedere il proprio stupratore e aguzzino sfuggire ancora una volta alla giustizia e restare libero di vivere la propria vita. Uno sfregio alla sofferenza cui lei e tante altre donne sono state sottoposte. Per June è troppo da sopportare, e per la prima volta vediamo tutto il suo contenimento infrangersi sotto il peso di una rabbia feroce. Di quella furia che lo scorso episodio di The Handmaid’s Tale 4 ci aveva mostrato come alternativa alla pacifica guarigione sponsorizzata come miglior metodo di liberazione dal passato.
La furia di June è incontenibile, terrificante. Densa dell’oscurità con cui Gilead è riuscita a impregnare la sua anima. È – seppur diversamente vestita – la stessa furia che l’ha spinta a sfidare Gilead più e più volte. La furia che ha ispirato tante che, come lei, si sono ribellate al regime. È la rabbia che adesso vive come una sorta di eredità negli occhi di Esther Keyes. Ve la ricordate?
La giovanissima Moglie che nei primi due episodi di The Handmaid’s Tale 4 aveva dato riparo e ristoro a June e alle altre ancelle fuggitive: Janine, Alma, Brianna, Sarah.
Ora è un’ancella lei stessa, ma tutt’altro che disposta a mettere il proprio corpo ancora una volta al servizio di una sistemica forma di abuso sessuale. Dopo June, ora è lei a sfidare il potere del regime, delle “correzioni”, di Zia Lydia. Ma con l’incoscienza della rabbia e, forse, della giovanissima età. Nel sostegno alla sua causa trova un fine e una speranza la vita di Janine, ormai pupilla di una Zia Lydia intenta a seguire il consiglio di Lawrence nell’approccio alle ancelle.
La testardaggine di Esther non si piega davanti alle minacce, all’abuso e alla forza, ma lo fa dinanzi alla familiarità di Janine, e a una frase chiave: “devi essere in forza per quando verranno tempi migliori”. Un altro compromesso. Che suona tuttavia come un segnale di speranza. Quella che non sia tutto finito, tutto ridotto a una perpetua sottomissione. Ma che ci sia sempre tempo e modo per portare avanti la propria vendetta, la propria ribellione al regime.
L’eredità della furia rivoluzionaria di June Osborn.