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The Handmaid’s Tale 6 comincia dove ci eravamo lasciati: due donne su un treno, June e Serena Joy, le due nemiche per eccellenza, ora unite dalla necessità, dal pericolo e dal medesimo status. Due donne, prima di tutto, e due mamme. Due mamme in fuga, per motivi diversi, ma che dovranno imparare a collaborare. L’avevamo già visto sul finale della quinta stagione, quell’approccio goffo e insieme tenero con la nemica di sempre da parte di Serena: “Ce l’hai un pannolino?”.
The Handmaid’s Tale 6 sarà un viaggio di chiusura corale: abbandonata la visione Juno-centrica, questa serie ci ha abituato a dover confrontare sempre punti di vista differenti. E, spesso, radicalmente opposti: in questo senso, June e Serena sono sempre state due facce della stessa medaglia, ma anche due figure che non potevano attrarsi se non per distruggersi a vicenda. E tutto fa presagire che, in questa stagione conclusiva, il loro scontro sarà proprio il cuore di questo finale tanto atteso.
Anche se, bisogna dirlo: quanto ci dispiacerebbe se The Handmaid’s Tale sacrificasse una delle due sull’altare del “ne rimarrà soltanto una”? Una dinamica da clichè (che preferiremmo onestamente evitare), ossia quello che le donne non possano andare d’accordo tra di loro.

“Il nemico del mio nemico è mio amico”, è la mano tesa di Serena a June che, però, ancora con gli occhi e l’animo in fiamme, la gela lapidaria: “Io e te non siamo insieme”.
Se qualcosa appare chiaro, in questi primi tre episodi, è che il ruolo di June si assurgerà sempre di più a eroina solitaria, sebbene sia riuscita nell’impresa di mettere insieme un esercito. Troppo il dolore, i ricordi delle violenze subite, delle persone che le sono state strappate, per perdonare non solo Serena, ma il sistema che lei rappresenta. Gettiamo il cuore oltre l’ostacolo: non saremmo stupiti di vedere June soccombere, dopo aver raggiunto il suo scopo.
Se c’è una serie che, in questi anni, è diventata da distopica a profetica, è proprio The Handmaid’s Tale.
Non solo per la questione femminile, ma anche per un tema che la quinta stagione aveva messo sul piatto e che la sesta ha tutta l’aria di voler approfondire: il destino dei migranti in fuga da Gilead. Viviamo infatti un costante senso di pericolo, di non sentirsi più a casa, di percepirsi continuamente sradicati, la propria famiglia sfilacciata come una corda usurata.
June ha detto nuovamente addio a Luke e continuerà a comportarsi come se dovesse sempre dire addio a Nick, in una storia che si è sempre nutrita di disperazione e di un certo senso di sbilanciamento che impedisce al rapporto di svilupparsi su binari sani. Lei ancella, Lui prima Occhio e poi comandante. Ora Nick e June sono in una condizione di strana parità ma continuano a trovarsi sempre sul lato opposto del fiume. E uno dei due, prima o poi, vedrà passare il cadavere dell’altro perché è scritto che, amore o no, debbano essere nemici.
Luke e Moira, finalmente, avranno il ruolo che gli spetta nella rivoluzione che sta arrivando: loro da un lato della barricata, June dall’altro, faranno l’impossibile per arrivare a eliminare tutti gli ostacoli che li separano e potersi, finalmente, toccare e non lasciarsi più.

La guerriglia si costruisce dall’interno, esonda come un fiume in piena e non lascia spazio all’autoconservazione. Tutti dovranno decidere da che parte stare, anche personaggi ambigui come Serena Joy e Zia Lydia. Su di lei, in particolare, gli occhi di tutti sono puntati, anche per il ruolo che (chi ha letto I Testamenti lo sa) avrà questo personaggio nel nuovo capitolo che si aprirà dopo la fine di The Handmaid’s Tale.
Tornando sull’attualità, fa una certa impressione veder sventolare nell’ancora libera e resistente Alaska una bandiera americana con due sole stelle rimaste. L’ennesima profezia di The Handmaid’s Tale, anche se le cronache delle ultime settimane sembrano volerci far propendere per l’aggiunta di stelle alla bandiera americana (una di queste, ironia della sorte, potrebbe essere proprio il Canada)?
Il volto del regime, intanto, si fa più morbido: per rendersi più appetibile si è persino inventato una sorta di Gilead in miniatura, la Nuova Betlemme, creata per coloro che fuggono dai territori occupati dai fanatici. Lo scopo di questa finzione, questa specie di Truman Show di cui tutti sono consapevoli, è ripulire il volto insanguinato di Gilead, mostrando al suo posto un sorriso smagliante.
L’ennesimo monito di questa serie, scolpito su quella che potrebbe essere la lapide della società civile, in un momento storico in cui la grottesca follia del presente supera spesso la finzione.
Un’altra delle tematiche che questa sesta stagione pone sotto la lente è l’essenza stessa della resistenza. Fino a che punto ci si può disumanizzare per perseguire un fine superiore? Quanto è sottile la linea tra giustizia e vendetta? Che prezzo paga chi decide di imbracciare le armi e combattere l’oppressore? Lo vediamo nelle espressioni determinate di June ma anche nel suo dolore, nelle parole strazianti che dedica a sua figlia: resistere ha sempre un prezzo.

Forse le fila di questa lotta non sarà June a tirarle. Forse, a riscrivere la grammatica dei diritti, delle emozioni, della società non saranno le ancelle sopravvissute, dilaniate dalla battaglia, ma le figlie per cui hanno combattuto. Quelle che dovranno estirparsi Gilead da dentro come un’erbaccia che cresce intorno all’anima, quelle che l’hanno osservata da lontano e hanno dovuto ergersi a scudo affinché non dilagasse anche da loro, travolgendole come una tempesta. Forse a riscrivere The Handmaid’s Tale, con il nuovo (annunciato) capitolo dei testamenti, saranno le figlie di June e di tutte le altre donne che hanno resistito.