ATTENZIONE: questo articolo contiene alcuni spoiler per la quarta stagione della serie.
Se c’è una serie che negli ultimi anni ha sconvolto il suo pubblico attirandolo in una spaventosa narrazione distopica della quale si fa fatica a portare il peso eppure non si riesce a fare a meno, è The Handmaid’s Tale. La serie, targata Hulu, pur essendo nata come un adattamento dell’omonimo romanzo di Margaret Atwood del 1985 si è resa indipendente dagli eventi del libro subito dopo la prima, acclamatissima, stagione. Da quel momento la storia televisiva di June Osborne ha preso strade sempre più tortuose e claustrofobiche. Ma a pochi giorni dall’esordio della quarta stagione una domanda pende sulla serie come un’enorme spada di Damocle: il racconto è ancora coerente con se stesso oppure si sta andando incontro a forzature eccessive?
The Handmaid’s Tale è tornata dopo un’assenza dai nostri schermi lunga quasi due anni. Un’assenza durante la quale non abbiamo potuto fare a meno di chiederci che ne sarebbe stato di Gilead e di quel sistema brutalmente patriarcale che riflette gli aspetti più oscuri di ciò che potrebbe essere qui e ora.
Dopo il drammatico finale della terza stagione, i nuovi episodi riprendono il racconto esattamente da dove lo avevamo lasciato: dopo aver aiutato 86 bambini e alcune Marte a scappare da Gilead, June è rimasta vittima di un colpo di arma da fuoco. Le Ancelle, sue fedeli compagne di resistenza, la portano al sicuro e fanno di tutto per rimetterla in sesto quel tanto che basta per continuare a combattere per la propria sopravvivenza. Da qui inizia il suo ennesimo calvario. E la storia riprende con il suo moto oscillatorio tra un atto di ribellione e la successiva (e a quanto pare inevitabile) caduta in mani nemiche.
The Handmaid’s Tale mette in scena un racconto ciclico di ascesa e caduta della protagonista che si ripete sin dalla prima stagione, ma siamo sicuri che sia ancora il modo migliore per massimizzare la risonanza della storia?
Le sue vittorie e le sue sconfitte sembrano ormai finite in un loop continuo: esprimere con azioni sovversive il proprio spirito di rivalsa, arrivare proprio a un passo dalla salvezza, solo per poi essere rigettata in quel pozzo nero che è Gilead. Un andamento ripetitivo, quello che descrive e in un certo senso delimita le mosse di June in questo universo claustrofobico. Non si può certo dire che le sofferenze e le difficoltà che vediamo susseguirsi sullo schermo non siano parte integrante della trama e della storia del personaggio: June non può andarsene veramente da Gilead non solo perché non glielo lasciano fare, ma perché quella di non abbandonare il luogo in cui si trova sua figlia è una sua specifica volontà.
Le sue compagne cadono attorno a lei come mosche, qualcuna piegata dall’oppressione psicologica, molte altre brutalizzate dal regime, ma lei non può permetterselo perché ha una luce a guidarla: la sua Hannah. Oltre alla voglia di distruggere Gilead dall’interno. Per quanto le sue motivazioni siano ben espresse e continuino a farcela sentire vicina, il rischio è che l’intera storia cominci a diventare tremendamente simile a un labirinto da cui è impossibile scappare e in cui si ha l’impressione di girare a vuoto. Come se questo fosse un girone infernale senza via d’uscita.
Se sin dall’inizio le torture di questo mondo distopico hanno costituito l’elemento cardine e il motivo scatenante attorno a cui la storia è andata sviluppando i suoi numerosi temi, ora sembra che la violenza sia quasi diventata il fine ultimo di molte sequenze.
Nel ciclo narrativo che vede June lottare disperatamente per la libertà delle donne e dei bambini di Gilead, i segmenti di racconto particolarmente crudi sono sempre stati parte integrante della storia, che aveva l’obiettivo di mostrarci tutta la malvagità nella quale sono calati i personaggi. Ma nel corso degli episodi l’abuso psicologico e fisico subito dalle donne di Gilead, e soprattutto dalla protagonista, ha fagocitato sempre più spazio, tramutandosi in una violenza con finalità quasi voyeuristiche. Da strumento di trama, le torture che ci vengono fedelmente mostrate in molte scene di The Handmaid’s Tale rischiano di oltrepassare il limite e diventare fini a se stesse. Tanto più che June, per quanto male possano infliggerle, sembra ormai un essere indistruttibile e inarrestabile. Un simbolo mistico della resistenza a Gilead, più che una persona a tutti gli effetti.
Non c’è dubbio che The Handmaid’s Tale sia ancora un caposaldo della serialità di questi ultimi anni, con il suo innegabile impatto culturale e il suo altissimo livello di resa tecnica. Ma è altrettanto chiaro che, distaccandosi dallo status di semplice adattamento televisivo, la serie abbia intrapreso un percorso molto tortuoso che rischia di perdere potenza un colpo di scena alla volta.
La scelta della serie di continuare a raccontare altri tasselli della vita di June Osborne e della sua battaglia è stata senza dubbio oculata e ci ha regalato un prodotto magnifico. Ma si sa: accanirsi su una storia che ha già detto molto potrebbe risultare fatale. Che sia giunto il tempo per iniziare a costruire un degno epilogo? Forse è proprio questo che potrebbe ridare coerenza a ciò che abbiamo visto finora: la sensazione di star compiendo gli ultimi passi verso una risoluzione che possa tirare le somme e dare un senso e un fine ultimo all’inferno che June ha dovuto attraversare.