Dare vita a un cult diventa sempre più difficile. Da quando il numero di prodotti seriali è aumentato a dismisura, anche la quantità di serie finite nel dimenticatoio è stata direttamente proporzionale a questo andamento. Eppure, ogni tanto qualche titolo salta fuori, trascina, travolge, diventa un simbolo. Ci sono state Friends (1994-2004), I Soprano (1999-2007), Gilmore Girls (2000-2007), Breaking Bad (2008-2013), Mad Men (2007-2015), e molte altre serie di tutti i generi, e negli ultimi anni è stato il momento di titoli come Better Call Saul (2015-2022) e The Handmaid’s Tale.
È di quest’ultima, che oggi vi parliamo. Del modo in cui il dramma tratto dall’omonimo romanzo distopico di Margaret Atwood (del 1985) si sia fatto strada tra le criticità del mondo in cui viviamo e sia diventato un punto di appoggio per altre serie tv e per la lotta di molti, anche e soprattutto al di fuori del piccolo schermo. Colori, personaggi, ambientazioni, inquadrature. In questa serie ogni elemento parla e manda un messaggio piuttosto chiaro, mascherandolo attraverso uno straordinario e inimitabile simbolismo. Perché cult, nel linguaggio ormai comune a tutti, sta a identificare un prodotto culturale che nel tempo ha acquistato un valore simbolico grazie al successo ricevuto e grazie alla sua unicità.
E non è forse accaduto questo con The Handmaid’s Tale?
Quando Margaret Atwood ha scritto e pubblicato il romanzo nel 1985, non ha nascosto che tutte le dinamiche da lei dipinte nel testo non erano frutto della sua fantasia. Niente di ciò che l’autrice ha descritto è stato inventato. Tutto, invece, è esistito o esiste in una parte del mondo a noi sconosciuta, di cui non abbiamo la minima consapevolezza, ma che chiama a gran voce cercando aiuto. Il testo, per quanto disturbante e distopico possa essere stato, si è rivelato più attuale che mai, in questo periodo storico. E non è un caso che l’ideatore Bruce Miller abbia scelto di dare vita a un adattamento seriale proprio ora (o meglio, nel 2017 quando è uscita la prima stagione su Hulu).
In un momento in cui la voce delle donne si sta facendo più forte e rumorosa che mai, c’è bisogno di prodotti come questo. Di romanzi o serie televisive che spingano fuori la rabbia e la indirizzino verso un obiettivo comune. Infatti, The Handmaid’s Tale, con il suo motto Nolite te bastardes carborundorum (“non consentire che i bastardi ti annientino“), con i suoi colori, con i suoi costumi e con i suoi temi, è diventata uno dei simboli più forti della lotta femminista e transfemminista in tutto il mondo.
Quando in molte parti del mondo vengono negati i diritti alle donne e nessuno sembra reagire, l’unica cosa che rimane, per dare una svegliata a tutti, è fare il paragone con il regime teocratico che nel Racconto dell’ancella ha trasformato l’America in un luogo da film dell’orrore. Quindi, durante le manifestazioni vengono spesso sfoggiate le mantelle rosse e le cuffie bianche che June Osborne (Elisabeth Moss) e le Ancelle indossano nella serie, accompagnate dal frequente appello “This Is Not Fiction“, “Questa non è una fiction” (o “questa non è finzione“).
E, purtroppo, è proprio vero.
Il richiamo feroce e ossessivo a una realtà che brucia e fa male è lo scopo principale di The Handmaid’s Tale. Ambientata in un America stravolta, la serie sembra essere sempre più inquietantemente vicina a diventare reale. Ed è proprio per questo che il successo ricevuto è stato così ampio. Nonostante le critiche rivolte alle differenze con il romanzo di partenza (alcune legittime se si pensa al fatto che il romanzo è stato pubblicato nel 1985 e che su alcuni elementi necessitava un ammodernamento), il cuore della serie è sempre arrivato forte e chiaro a tutto il pubblico. La storia di June Osborne è o può essere quella di tutte noi.
La cattiveria a cui alcuni uomini e il regime di Gilead hanno portato lei e moltissime altre donne, ha dato una piccola misura di tutta la sofferenza che hanno vissuto. Private della libertà di vivere, di scegliere quando e con chi dare alla luce un figlio, di parlare, di lavorare, di scrivere e in generale di essere donne, le Ancelle, le Marte, le Mogli e le Zie sono tutte vittime (consapevoli o inconsapevoli) di un mondo marcio. E loro siamo tutte noi. Le interpretazioni di attrici di altissimo livello come Elisabeth Moss, Yvonne Strahovski, Ann Dowd, Alexis Bledel e molte altre ancora, non hanno fatto che aumentare il coinvolgimento emotivo degli spettatori e delle spettatrici nell’intenso meccanismo narrativo della serie.
Senza ombra di dubbio, The Handmaid’s Tale può essere considerato un cult della nostra epoca perché, a prescindere dalle tante (forse troppe) stagioni, a prescindere dalle critiche legate alla trama ampliata in funzione della produzione, a prescindere da tutto, rappresenta il cuore di un periodo storico di profondo riscatto. Dà voce a chi non ne ha, a tutte quelle donne oppresse, soppresse e dimenticate di tutti i paesi del mondo. Dà voce al brutto ma anche al bello di questo mondo, però. Alle gioie riscoperte delle piccole cose, di quelle a cui avevamo smesso di dare importanza perché le pensavamo scontate e invece non lo sono.
The Handmaid’s Tale è un invito continuo alla lotta, a non smettere mai di ritenere essenziali le libertà che abbiamo, affinché nessuno ce le possa portare più via. È un invito a svegliarci dal nostro torpore e combattere per il mondo in cui crediamo ogni giorno, senza dimenticare neanche per un secondo perché lo stiamo facendo. È un motivo per ricordarci che non siamo più sole e che non dovremo esserlo più. È un richiamo anche per chi alla lotta è sempre stato estraneo e attraverso una serie tv sceglie di fare un primo (seppure piccolo) passo avanti verso una nuova consapevolezza di sé e dell’altro.
The Handmaid’s Tale è la serie tv di cui avevamo bisogno, il cult che anni fa non ci saremmo aspettati sarebbe diventato tale, e che invece si è conquistato un posto d’onore nel panorama seriale internazionale ma, soprattutto, nei nostri cuori.