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Just like a woman: June Osborne e Serena Joy

The Handmaid's Tale
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Ode a June Osborne, fiore d’acciaio: l’eroina di The Handmaid’s Tale è senza dubbio uno dei personaggi femminili meglio scritti e interpretati nella storia delle serie tv. La sua complessità, affidata a una fuoriclasse come Elisabeth Moss, sta nell’essere sempre in continuo mutamento. Un’evoluzione senza tregua che scava nei recessi dell’anima di un personaggio spesso indecifrabile ma, un attimo dopo, limpido come un cristallo.

Ode a Serena Joy, il cubo di Rubik più irrisolvibile di The Handmaid’s Tale. Un personaggio che non finisce mai di spiazzare e di incidere il cuore dello spettatore con le sue insanabili contraddizioni. L’interpretazione raffinata e algida di Yvonne Strahovski conferisce ancora più classe a un personaggio che si contrappone a June anche sul piano fisico.

Personaggi madreperlacei, dalle infinite sfumature. Proprio come la misteriosa donna a cui si rivolge Bob Dylan nella sua immensa Just like a woman.

Una canzone in cui si trovano alcuni versi che possono essere letti con la lente di The Handmaid’s Tale. Versi che diventano anche un racconto dell’evoluzione intrapresa da June a Gilead e del fitto intreccio emotivo tra la protagonista e la sua nemesi, Serena Joy Waterford.

Nobody feels any pain/Tonight as I stand inside the rain. La solitudine, lo smarrimento di trovarsi sola, strappata alla propria famiglia, catapultata in una realtà gelida che sferza la sua anima come pioggia fredda. la June di The Handmaid’s Tale è una donna de-umanizzata, a Gilead, sottoposta a torture e terribili angherie in nome di un’ideologia religiosa distorta. Mentre lei soffre, esposta alle intemperie, nessuno sembra udire il suo grido di dolore. Nessuno sembra più capace di provare alcun sentimento, come se le facoltà empatiche di una società si fossero trasferite nelle ancelle, a cui tocca il carico di dolore maggiore.

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“Everybody knows that baby’s got new clothes”. I nuovi vestiti di June sono, letteralmente, le sue uniformi da ancella di Gilead. Il colore rosso della tunica, la cuffia bianca, gli stivaloni. Donne in serie, da usare e gettare via quando non più funzionanti.

“But lately I see her ribbons and her bows/Have fallen from her curls”. Questo verso fa pensare alla June di The Handmaid’s Tale, che perde la libertà di esprimere se stessa. Ma anche alla figlia Hannah, che le viene portata via a pochi anni di vita e che cresce senza madre, in una vera e propria “fabbrica di donne di Gilead”. Qui le inculcano i nuovi valori a cui dovrà conformarsi per essere una brava moglie. Due donne a cui viene strappata l’identità e viene negata la libertà di decidere chi vogliono essere, a cominciare da ciò che indossano.

“She takes just like a woman
Yes, she does, she makes love just like a woman
Yes, she does, and she aches just like a woman
But she breaks just like a little girl”
.

Nonostante le umiliazioni e il dolore, a Gilead June continua a ricordare e a conservare una donna nel suo cuore. Una donna che prende ciò di cui ha bisogno, anche nelle avversità: l’amore di Nick sarà la sua ancora di salvezza nei momenti più bui. Lei continua a credere nell’amore, e a farlo, da donna libera. Lei che soffre con maturità ma che, quando il dolore è troppo grande, si spezza come una bambina.

Nella seconda parte della canzone, alcuni versi descrivono il rapporto tra Serena e June. Due donne forti, che si scippano l’una con l’altra il potere e sanno stringere disperate alleanze (“Queen Mary, she’s my friend/Yes, I believe I’ll go see her again”). Alleanze che, però, per buona parte di The Handmaid’s Tale resteranno un debole fuoco di paglia. Soprattutto a causa dell’incapacità di Serena di andare fino in fondo al processo di cambiamento, tornando sempre sui suoi passi e conformandosi alle dinamiche di Gilead, che lei stessa ha contribuito a plasmare (“Nobody has to guess that baby can’t be blessed/’Til she finally sees that she’s like all the rest”).

Ognuna desidera qualcosa che l’altra possiede.

La “pioggia” che ritorna anche in questa strofa diventa una metafora della fertilità di June, così disperatamente e rabbiosamente agognata da Serena. Questa “assetata” e condannata a un’arida sterilità (“It was raining from the first/And I was dying there of thirst”).

Il rapporto tra Serena e June raggiungerà picchi di perfidia e odio nel corso delle cinque stagioni di The Handmaid’s Tale, rendendo queste due donne la nemesi l’una dell’altra (“Your long-time curse hurts”) e ribaltando spesso la prospettiva e gli equilibri vittima-carnefice, facendo provare all’una l’angoscia e il terrore dell’altra (“But what’s worse is this pain in here/I can’t stay in here”).

Ma, nel corso della quinta stagione di The Handmaid’s Tale, le due donne scoprono un equilibrio diverso, dovuto al cambiamento di status di Serena. Ella diventa esule tanto quanto June, madre quanto June, sola quanto June. June compie la scelta più difficile della sua vita, decidendo di non vestire i panni della vendicatrice (come aveva invece fatto col comandante Waterford, marito di Serena) e di aiutare la sua nemica, colta dalle doglie nel mezzo del nulla con solo la sua ex ancella ad accudirla. June riveste temporaneamente i panni di “ancella” per mettersi al servizio di un essere umano in difficoltà. Scegliendo di non abbassarsi al livello della nemica (né dell’antica se stessa) e stabilendo una fragile tregua. Il tutto in nome della nuova vita che Serena stringe tra le braccia.

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Ain’t it clear that I just can’t fit/I believe that it’s time for us to quit”. La terra di nessuno al confine tra Canada e Gilead è la testimone ideale della tregua che le due donne decidono tacitamente di stipulare. Nessuna ha più interesse nella vendetta: il richiamo della vita spazza via l’impulso di morte che aveva guidato le azioni delle June e Serena vendicatrici.

Ciò non significa che le due ex nemesi di The Handmaid’s Tale possano diventare amiche (“But when we meet again, introduced as friends”), quando si incontrano nuovamente, per caso, sul treno per sfollati, entrambe con un bambino in braccio e disperatamente sole. Non basta il ramoscello d’ulivo di Serena nei confronti di June (“Hai un pannolino?”). Non basta a rimarcare la raggiunta situazione di equilibrio ed equivalenza totale tra le condizioni delle due donne. E non basta neanche a spezzare anni di tensioni e soprusi, cristallizzati qui nella metafora della fame, dopo quella della sete (“Please don’t let on that you knew me when/I was hungry and it was your world”).

June Osborne, fragile e determinata, consapevole e smarrita. Ma anche Serena Joy, machiavellica ed emotiva, crudele e misericordiosa. Queste le tante facce delle donne cui si rivolge Bob Dylan nell’immortale Just like a woman, perfino in The Handmaid’s Tale. Una canzone scritta per descrivere e omaggiare una generazione di donne, di metà anni Sessanta, che hanno fatto la loro parte per rendere il mondo un posto più equo per il loro sesso, anche solo avendo il coraggio di vivere una vita libera e spontanea. Ma anche a tutte le contraddizioni che rendono l’animo femminile così insondabile e misterioso.

The Handmaid’s Tale è una serie piena di figure femminili forti, affascinanti proprio perché contraddittorie: questa canzone è un inno alle spine e ai petali di queste donne.