È una verità universalmente riconosciuta che un antagonista ben costruito e sfaccettato riesca a dare a una storia un’attrattiva quasi morbosa. Ed è altrettanto universale il sentimento di perversa curiosità nei confronti di personaggi che riconosciamo come negativi che pure sanno mostrarsi profondi e sfaccettati al punto che facciamo fatica a relegarli al ruolo di semplici ostacoli posti sul cammino di un beniamino. Sono un mondo a parte, un microcosmo che merita di essere esplorato anche se privi di punto di riferimento che riescano a farcelo comprendere fino in fondo. E se c’è una figura che riesce a incarnare questi sentimenti alla perfezione, raggiungendo livelli di sviluppo a dir poco esplosivi, è quella di Serena Joy Waterford in The Handmaid’s Tale.
ATTENZIONE: questo articolo contiene accenni alla quarta stagione di The Handmaid’s Tale.
Una psicopatica, un mostro, una violenta, un’attrice consumata: questo il ritratto che June dipinge di Serena Joy, che è stata capace di toglierle tutto e che adesso, dopo quanto accaduto nella quarta stagione della serie, si trova finalmente dall’altra parte della recinzione. Fuori da Gilead, lontana dalla gabbia che lei stessa ha contribuito a forgiare e imputata giustamente di orrendi crimini.
D’altronde Gilead dà e Gilead toglie e questo The Handmaid’s Tale ce lo ha insegnato sin da subito.
Se agli albori del regime la Moglie più nota del neonato stato totalitario teocratico si trovava in una posizione estremamente favorita per aver contribuito alla creazione della “nuova America”, il piedistallo ha cominciato presto a scricchiolare sotto di lei, lasciandola cadere un centimetro alla volta. Difficile dire se sia pentita, anche in minima parte, di ciò che ha visto la luce a partire dalle sue idee. Se sia consapevole fino in fondo di quanta distruzione umana abbiano causato i suoi dogmi, che la società da lei voluta ha provveduto a imporre a costo del sangue e della vita.
In alcuni sprazzi potrebbe sembrare davvero che Serena Joy riesca a capire il male scaturito da Gilead. A darne l’impressione sono le sue lacrime durante il confronto con June, il tentativo di ritrovare una connessione con Rita, ben consapevole che certe aperture potrebbero non esserle concesse, ora che non è lei a detenere il potere decisionale. Ma probabilmente ci sarà sempre una parte di Serena Joy convinta che quanto accaduto a Gilead fosse semplicemente il mezzo necessario per un fine. Il suo fine. E i rari momenti in cui sembra rendersi conto di aver preso mani violente nelle sue solo per metterle alla gola delle donne, sono i momenti in cui lei stessa si sente soffocare.
Le piccole ribellioni di Serena sono davvero scaturite dai rimorsi di una coscienza che le parla da lontano, oppure sono solo il risultato di una sensazione di pericolo personale? Di una paura per se stessa e dell’indignazione di vedersi negare ciò che credeva le spettasse? Un figlio, un trattamento speciale da parte dei vertici di Gilead, un diritto innato a essere l’unica eccezione alla regola. Lei stessa, a volte, sembra essere all’oscuro della risposta.
Ciò che si è fatto a Gilead è stato nel rispetto del volere di Dio, è il mantra che spesso lei e il Comandante Waterford hanno ripetuto nella quarta stagione di The Handmaid’s Tale.
Una linea di difesa netta, che non prevede alcun tentennamento e che sembra soprattutto il tappeto sotto cui Serena Joy continua imperterrita a nascondere – anche a se stessa – le atrocità che ha commesso negli anni. E d’altronde è forse questo l’aspetto che la rende un personaggio così controverso da renderlo attraente: quella bolla che ha costruito attorno a se stessa per giustificare ogni atto violento, ogni pensiero, ogni condotta che l’ha portata a interiorizzare Gilead e tutto ciò che rappresenta.
Gilead vive dentro di noi, diceva Zia Lydia, e questo è vero soprattutto per chi Gilead l’ha voluta con tutte le sue forze e continua a difenderla nonostante ciò che le ha tolto.
Da spettatori, alterniamo momenti in cui ci convinciamo che ciò che muove Serena Joy sia il suo tornaconto, il suo scopo personale che si era convinta dovesse diventare anche scopo del resto del mondo. Percepiamo che i “valori” a cui inneggia Gilead, le sue strette regole, gli alti compiti a cui tutti dovrebbero sentirsi votati al di là delle proprie esistenze e delle violazioni subite sono solo un bel lenzuolo sotto cui Serena nasconde i propri interessi. Eppure, per brevi istanti, la vediamo preoccuparsi per il mondo in cui sarebbe cresciuta Nichole o le circostanze in cui verrà al mondo il figlio che porta in grembo. È solo in questi fugaci momenti che vediamo incrinarsi di qualche millimetro le certezze ferree di Serena Joy, in quegli occhi che sfiorano velocemente il male, la disperazione, la privazione dell’umanità prima di chiudersi nuovamente.
E se le scuse a June, il suo tentativo di riconciliarsi con Rita e le sue mille altre false redenzioni ci appaiono solo tentativi disperati di mettersi al riparo dalla furia di un governo ostile, quella inaspettata tenerezza per i bambini e il futuro mostrano una parte di lei che sembra non avere alcun senso. Un tassello che dobbiamo infilare forzatamente nel mosaico.
Chi è davvero Serena Joy? La manipolatrice subdola, la donna di pietra capace di qualsiasi cosa per ottenere ciò che vuole per se stessa, o la madre con le lacrime agli occhi? Forse non lo sapremo mai, forse è entrambe le cose perché nessuno è interamente bianco o nero e ciascuno si porta dietro una diversa scala di grigi di cui si compone la complessità umana. E per quanto siano evidenti in lei le radici di tutto ciò che di mostruoso Gilead ha saputo portare alla luce, forse non arriveremo mai a capire davvero cosa si muove nell’animo di Serena Joy e di chi come lei si mostra in tutta la sua controversa natura. Ma non è soprattutto per questo che The Handmaid’s Tale ci resterà impresso nella mente?