Nel 2017 debuttava una serie tv rara, un autentico gioiellino che avrebbe sconvolto in positivo il mondo della serialità televisiva. A dimostrazione della bellezza e dell’impatto di The Handmaid’s Tale ci sono anche 9 Emmy, 2 Golden Globe, 2 Critics Award e altri numerosi premi e nomination. Uno show che, dopo ben cinque round, vedrà presto la fine con la sesta e ultima stagione. Quindi, nell’attesa che questa veda la luce sui nostri schermi, ci rivolgiamo a chi ancora non l’ha vista, andando a spiegare i motivi per cui questo meraviglioso e necessario spettacolo merita una possibilità, sperando di convincere tutti a recuperarla su Amazon Prime Video e TimVision.
Per prima cosa, bisogna raccontare la trama di The Handmaid’s Tale, per comprendere di cosa parla la serie.
In un futuro distopico in cui il tasso di fertilità è bassissimo a causa di malattie e inquinamento, in seguito a una guerra civile è nata la Repubblica di Gilead là dove un tempo sorgevano gli Stati Uniti. È una società totalitaria e teocratica che, guidata dai Comandanti, riduce le donne a proprietà, oggetti o incubatrici, impedendo loro di lavorare, leggere o possedere del denaro. Divise in categorie identificate dal colore dell’abito, ci sono le Mogli dei Comandanti che gestiscono la casa assieme alle domestiche chiamate Marte; istruite dalle Zie che collaborano col regime, le Ancelle sono le poche donne fertili che, schiavizzate e assegnate ai Comandanti, subiscono stupri rituali con lo scopo di procreare. A queste appartiene June Osborne, ribattezzata Difred (ovvero “di Fred”) e assegnata al Comandante Fred Waterford e alla moglie Serena Joy. Cerca di sopravvivere in un mondo in cui anche una sola parola sbagliata può ucciderla e dove chiunque può essere un spia, col solo scopo di sopravvivere e trovare la figlia rapita.
Già dalla trama di The Handmaid’s Tale emerge la durezza delle sue (purtroppo ancora attuali) tematiche, in particolare il trattamento e la sottomissione della donna. Le protagoniste sono state strappate alla loro famiglia, alla loro libertà, ai loro valori e ai loro diritti; hanno perso il nome, ogni traccia della loro identità è stata cancellata e semplicemente appartengono a qualcuno. Come le Ancelle. Persino le Mogli sono addobbi di una gabbia dorata. La vita delle donne a Gilead è ridotta al ciclo riproduttivo delle Ancelle; chi si ribella o è infertile è automaticamente una Non-Donna e, nei migliori casi, diviene Marta, nei peggiori viene spedito a lavorare nelle Colonie radioattive fino alla morte.
Tutto ciò è terribilmente spaventoso, e sapete perché? Non solo alcune di queste parole le sentiamo tutt’oggi (e rabbrividiamo per questo), ma l’autrice del romanzo da cui è tratta la serie, Margaret Atwood, non ha inventato niente. Ha semplicemente attinto alla storia dell’umanità, tanto che ha sempre detto che non racconta alcun crimine “che il genere umano non ha già commesso, da qualche parte nel mondo e in qualche periodo della storia”.
Allora, The Handmaid’s Tale diviene lo specchio dilatato e deturpato della crudeltà che l’umanità è capace di raggiungere verso i suoi simili.
Qualche esempio? Il problema delle mogli-bambine e delle donne schiave, la segregazione razziale, la persecuzione degli omosessuali, la deportazione/sterminio degli ebrei, la mutilazione genitale femminile, l’infibulazione, i regimi dittatoriali teocratici e non, gli stupri e l’oggettificazione dell’essere umano, la sottomissione totale e la difficoltà di lottare in quelle condizioni. C’è una scena spaventosa in cui un uomo si offre di violentare la protagonista, con lei che risponde di no perché: “potrebbe essere pericoloso”, riferendosi alla reazione dei suoi padroni. Sono vette di brutalità che certe volte raggiungono picchi insostenibili, tali da aver bisogno di una pausa tra un episodio e l’altro. Anche perché il modo in cui ci mette in guardia sull’instaurazione delle società totalitarie è così plausibile da far paura.
Come dicono le protagoniste in The Handmaid’s Tale “tutto è cambiato poco alla volta”: prima i loro conti sono stati bloccati, poi è arrivato il licenziamento e la repressione delle proteste. Aggiungono che “quando hanno annullato la Costituzione non ci siamo svegliati”, passando gradualmente da uno stato marziale a una dittatura attraverso la diminuzione dei diritti, attentati terroristici e l’aumentare del clima di terrore. E saremmo degli ingenui se pensassimo che questo non possa mai accadere. Perché già succede in alcune parti del mondo. Senza contare il periodo storico in cui è arrivata la serie, quando in Texas venivano avanzate proposte estremiste contro l’aborto e in Oklahoma un politico portava avanti un disegno di legge in cui l’aborto poteva avvenire solo col lasciapassare del padre biologico, perché per lui la donna è ‘ospite’ del bambino. Sì, tutto ciò nella democraticissima America. Là dove, nello stesso periodo, nasceva il MeToo in seguito allo scandalo Weinstein, che portò una nuova e necessaria riflessione sulla donna in quel di Hollywood.
Allora, che sia in cartaceo o sullo schermo, The Handmaid’s Tale è diventato un’emblema del femminismo, quello sano che lotta per tutto e tutti, affrontandolo senza stereotipi o etichette. Si inserisce perfettamente nel presente anche attraverso un potentissimo messaggio: il sonno della ragione crea autentici mostri, lentamente, senza che ce ne si renda conto. Ecco che il coinvolgimento è istantaneo, l’empatia e l’immedesimazione immediate. A differenza di altri show, è vivo e intenso fin da subito e ci immerge nel dramma dalla primissima scena. Contribuisce a questo la storia di sopravvivenza di June, che ci fa chiedere se si salverà, se troverà sua figlia, se sconfiggerà un nemico ben identificabile e altre mille domande che ci tengono incollati allo schermo.
Ciò è merito anche dell’interprete di June, Elizabeth Moss, la Peggy Olson di Mad Men. Mostra una ferocia che richiama quella di Uma Thurman in Kill Bill, entrambe accomunate dalla ricerca della figlia perduta. Estremamente magnetica, ha una grandissima presenza scenica, un’enorme gamma espressiva a cui attingere e riesce a incarnare ogni sfumatura di June con una potenza inaudita. C’è anche Alexis Bledel che si libera dei panni di Rory Gilmore per incarnare una donna profonda, complessa e ribelle. Per non parlare degli altri grandissimi componenti del cast: da Joseph Fiennes e Yvonne Strahovsky a Ann Down, passando per Max Minghella, Samira Wiley e Madeline Brewer di Orange is the New Black. E The Handmaid’s Tale è tanto riuscita anche grazie al suo comparto tecnico. La fotografia riesce a creare e a farci entrare sottopelle l’atmosfera angosciante, violenta e asfissiante di Gilead, avendo anche valenza simbolica; la musica è spesso e genialmente in contrasto con ciò che vediamo, eppure risulta perfetta per ogni singola circostanza; la resa scenica è impeccabile, passando da riprese coi droni dei paesaggi a momenti più terribili e/o più intimi; i costumi sono curati fin dei minimi dettagli, a cominciare dagli abiti delle Ancelle; infine, è una serie tv intrisa di simbolismo, da leggere attentamente e non solo da vedere.
The Handmaid’s Tale è una serie che non dovrebbe essere divorata (perché c’è bisogno di riprendersi poi), ma è necessaria per capire che cosa potrebbe accedere in un futuro non tanto irreale, non tanto lontano. Anche per quanto riguarda il problema ambientale, il messaggio di allarme è fortissimo, considerandone le conseguenze, invitandoci a prenderci cura dell’unica Terra che abbiamo. Tecnicamente perfetta e magnificamente recitata, fa male sì, perché mostra l’annullamento e l’asservimento delle donne, ma anche la loro forza di combattere una violenza che non sembra avere limiti.