ATTENZIONE: l’articolo contiene SPOILER su The Handmaid’s Tale.
Anche se con un po’ di ritardo, la quarta stagione di The Handmaid’s Tale è finalmente approdata sui nostri schermi. Attesissimo – soprattutto dopo il cliffhanger della terza stagione – il nuovo capitolo si è rivelato una svolta decisiva per il dramma distopico di Bruce Miller. Un necessario rimescolamento delle carte che ha ridato vita a uno show che, pur essendo capace di trasportare con le sue emozioni, stava rischiando di saltare lo squalo. Ispirata al romanzo di Margaret Atwood, The Handmaid’s Tale è una storia in cui la violenza (fisica e psicologica) ha sempre avuto un ruolo centrale. Oppresse da un regime teocratico totalitario, le donne di Gilead sono infatti sottoposte a forme di degradazione che ci hanno colpito non solo perché profondamente conturbanti, ma perché capaci di raccontare una realtà fin troppo reale.
Mostrandoci un futuro distopico, la serie di Hulu ha saputo parlarci dei reali crimini del genere umano, spingendoci alla riflessione attraverso la storia della sua protagonista. La figura di June Osborne è infatti ciò che dà veramente corpo allo show, merito anche dell’eccezionale bravura di Elisabeth Moss. Dal talento mostruoso, l’attrice ha portato alla vita June con uno struggente realismo, mostrandoci la sua evoluzione da vittima ad anti-eroina ribelle e combattente, disposta a tutto pur di riconquistare la sua libertà. Pur di distruggere il regime che le ha sottratto ogni cosa. Forgiata da Gilead, la donna andrà incontro a un cambiamento profondo e radicale, l’unica strada possibile per sopravvivere in mondo in cui non c’è posto per gli scrupoli. Decisa e a tratti spietata, la donna comprometterà la sua stessa umanità pur di ottenere la giustizia della quale non può, e non vuole, fare a meno.
Dunque, la missione di June è chiara.
Non potrà esserci pace finché Gilead non sconterà i suoi crimini, finché Hannah non tornerà fra le sue braccia. Ma nel tentativo di raccontarci questa missione apparentemente impossibile, lo show si è incastrato in un loop narrativo che ha compromesso la sua credibilità: difatti, ogni vittoria è stata quasi sempre seguita da una rovinosa sconfitta, che ha ricollocato la protagonista al punto di partenza. Di nuovo nelle mani dei nemici, è costretta a sopportare abusi ai quali però riesce sempre a sopravvivere. Difatti, oltre a essere diventato ciclico, lo show si è ritrovato a usare uno dei tv tropes più odiati di sempre: il plot armor. Non importa quante volte sfidi Gilead, June riesce sempre a superare qualsiasi tipo di ostacolo. Ad essere risparmiata laddove qualunque altra Ancella sarebbe stata giustiziata. Se all’inizio l’invincibilità della protagonista poteva essere un modo per mostrarci la sua eccezionalità, con il passare del tempo questo meccanismo è diventato sempre più improbabile. D’altronde, a quanti colpi di arma da fuoco e torture si può ragionevolmente sopravvivere?
Una volta superato il materiale originale, lo show ha imboccato una strada tortuosa e difficile: nel corso delle stagioni ci sono state diverse forzature narrative che lo hanno reso più prevedibile, oltre che più difficile da guardare. Se nella prima stagione le violenze servivano a mostraci la crudeltà di Gilead, a partire dalla seconda si sono trasformate in uno strumento con finalità quasi voyeuristiche. Difatti, anche se il livello di produzione è rimasto sempre molto alto, l’insistenza sulle atrocità inflitte a June è diventata sempre più fine a se stessa, rendendo così alcune scene veramente troppo indigeste.
Fortunatamente, con la quarta stagione The Handmaid’s Tale è riuscita a uscire dal labirinto di storyline ripetitive.
La svolta definitiva è giunta con l’arrivo di June in Canada. Sia chiaro, i primi episodi sono ottimi e riconfermano il ruolo della protagonista, una vendicatrice temprata dalle sofferenze, pronta a guidare le sue compagne e a piegare la volontà di chiunque possa favorire la sua causa. Ma è nel momento in cui finalmente sfugge dal mondo oscuro di Gilead che lo show ha iniziato a scrivere un nuovo ed entusiasmante capitolo. Difatti, la sua ritrovata libertà è una boccata d’aria fresca: anche se il cambio di ambientazione le ha fatto perdere parte del suo fascino pittoresco (legato ad ambienti e costumi sempre molto suggestivi), la serie ha dimostrato di avere qualcosa di nuovo da raccontare, proponendoci un percorso narrativo concentrato sulla vita post Gilead.
The Handmaid’s Tale è arrivata così a riflettere su cosa significhi tornare a vivere dopo anni di violenze: qual è il modo migliore per superare i propri traumi? Una volta che si è visto il peggio dell’umanità, è veramente possibile tornare a essere ciò che si era prima?
Tutte domande che ci parlano della gestione del trauma quando il trauma di per sé è già finito, un aspetto che non era stato ancora esplorato. E che soprattutto ci ha dato la possibilità di assistere all’evoluzione psicologica di June, sempre coerente e capace di dare ulteriore spessore a una protagonista già complessa. Da questo punto di vista, la quarta stagione si è rivelata essere la migliore dopo la prima: mantenendo la sua qualità e offrendo qualcosa di nuovo, ha saputo far emergere tutte le logiche che avevano mosso l’immaginario dello spettatore nelle prime stagioni. La maternità, il contrasto tra la visione della donna e il suo vero potere, la distorsione degli insegnamenti della religione cattolica.
Tuttavia, nonostante i richiami al passato siano numerosi, June non è più quella che avevamo conosciuto nel pilot.
La protagonista è finalmente libera, ma non ha pace. Una pace che sembra non trovare nemmeno nelle sedute di terapia, rifiutando sin dall’inizio la retorica della guarigione. Non è possibile guardare avanti e lasciarsi indietro i ricordi terribili. Così come non è possibile trovare conforto nel suo passato, in quel marito dal quale ormai si sente distante anni luce. Una distanza che non potrà mai essere colmata, se non forse con il salvataggio di Hannah. E la distruzione di Gilead, perché June non può perdonare i suoi carnefici e ciò che le è stato fatto. Non può dimenticare, e con la sua testimonianza in tribunale ci viene ricordato quanto nessuno dovrebbe mai dimenticare.
In una delle scene più forti e commoventi della stagione, la protagonista si confessa con parole dure, dirette e senza possibilità di replica. Denuncia quella Repubblica che si nasconde dietro la volontà di Dio per esercitare la propria. Un regime che sopprime le donne in ogni modo possibile, spezzando la loro psiche in maniera irreversibile. Ma nonostante la sua testimonianza struggente, il governo statunitense preferisce stabilire un’alleanza con Fred Waterford: un piccolo sacrificio per favorire un piano più grande. Ed è così che il desiderio di giustizia di June, disposta a collaborare con il sistema, finisce per trasformarsi in sete di vendetta. Come predicava Lord Baelish, ‘non c’è giustizia al mondo a meno che non siamo noi a farcela‘, e June ne è un perfetto esempio. L’unico modo per riscattarsi dopo anni sofferenza è nelle sue mani. Nella sua furia vendicativa che ci mostra ancora una volta quanto ormai la protagonista navighi nei meandri dell’antieroismo.
L’esecuzione di Waterford è insieme bellissima e terribile.
Violenza e arte visiva si incontrano in una scena che difficilmente dimenticheremo. Un momento catartico in cui il ‘branco’ delle ex Ancelle ha finalmente la possibile di ripagare il proprio carnefice con la sua stessa moneta: paura e dolore. Ma per quanto soddisfacente, la morte di Fred mette in luce un cambiamento inquietante: quelle che erano donne innocenti sono infatti diventate figlie di Gilead, arrivando a legittimare i suoi stessi metodi. Ergendosi come giudice, giuria e boia e ottenendo giustizia con il sangue.
June finisce così per diventare ciò che aveva sempre odiato (o almeno in parte). Basti pensare al confronto con Serena o alla violenza nei confronti di Luke nella 4×07 (qui la nostra recensione). In entrambi i casi, assistiamo a un capovolgimento dei ruoli che sancisce il definitivo passaggio da eroina ad anti-eroina. Finalmente in una posizione di vantaggio, la protagonista getta veleno e sentenze sulla sua aguzzina, in una scena dal parallelismo poetico. Mai come in quel momento la linea che le separa è così sottile. Difatti, a fine episodio diventa chiaro quanto ormai entrambe abbiamo sfumature da villain: l’una per sopravvivere e l’altra per cercare di colmare un vuoto che non potrà mai essere colmato. Ma se l’odio di June nei confronti dell’antagonista è più che comprensibile, la successiva violenza su Luke non lo è affatto.
June diventa infatti la carnefice di un uomo che non ha colpe. La donna usa il sesso nello stesso modo in cui era stato usato su di lei a Gilead. E anche se il suo è un tentativo di riprendere controllo, questa forzatura sul marito ci parla di un cambiamento irrevocabile: la protagonista non sarà mai più la donna che Luke aveva conosciuto, neanche quando avrà superato i suoi traumi. Neanche quando forse ritroverà parte della sua umanità riabbracciando Hannah. Non importa quanto possa desiderare essere una madre e una moglie, non c’è alcun modo per riavvolgere il nastro perché il peso delle violenze subite supera fin troppo quello della libertà riconquistata.
Anche se il Canada ha avuto un ruolo principale nella quarta stagione, The Handmaid’s Tale ha ritagliato uno spazio anche per Gilead.
In particolare, sono state gettate le basi per sviluppi narrativi possibilmente decisivi. Basti pensare all’alleanza fra Janine ed Esther, simbolo dell’eredità di June. Insieme, le due potrebbero portare avanti ciò che è stato iniziato dalla protagonista, imparando a usare i mezzi a disposizione per combattere il sistema. Ma se l’odio di Esther nei confronti del regime è palese, Janine rimane invece un personaggio imprevedibile. Pur essendo molto più consapevole rispetto all’inizio dello show, non è da escludere la possibilità che salti la barricata e diventi una Zia. E parlando di Zie, anche Lydia potrebbe sorprenderci. Nel corso di questo capitolo non ha avuto molto spazio, ma ci sono stati mostrati i primi cenni di un cambiamento. Chissà, forse sarà proprio lei ad andare incontro a un percorso di redenzione, contribuendo alla caduta di Gilead attraverso la collaborazione con Lawrence. O magari costruendo un nuovo regime a stampo matriarcale, in cui gli uomini subiranno le stesse violenze che avevano inflitto.
Non ci resta che aspettare la prossima stagione per scoprire cosa Miller abbia in serbo per noi. Nel frattempo, non possiamo che apprezzare un’evoluzione narrativa che ha scongiurato un pericoloso salto dello squalo e ci ha dato materiale capace, dopo anni, di entusiasmarci ancora.