La penultima puntata di The Haunting of Bly Manor ci catapulta in un’atmosfera da incubo: complice il bianco e nero, l’ambientazione nel XVII secolo e l’angosciante senso di claustrofobia che ci comunicano alcune scene, abbiamo l’impressione di essere prigionieri di un’ossessione.
Un’ossessione, già. Come quella che coglie Viola, la protagonista della puntata, e che la conduce a una vita oltre la morte fatta di mania, solitudine e rabbia.
La tragica storia delle sorelle Willowby, divenute entrambe Lloyd, apre una malinconica parentesi all’interno della storia principale raccontata in The Haunting of Bly Manor. Viola, la maggiore, interpretata dalla magnetica e sempre affascinante Kate Siegel (quanto ci era mancata!), così volitiva, instancabilmente convinta di sé e fiera di come Dio l’ha creata, al punto da sfidarlo prima e sostituirsi a lui dopo la sua morte. Perdita, la minore, all’apparenza più innocua dell’energica sorella ma in realtà subdola, calcolatrice e così attaccata al denaro da incontrare la morte a causa di esso.
Ben prima che il finale di The Haunting of Bly Manor, così simile a quello di Hill House per la tendenza a scadere in una verbosità melensa, ci comunicasse l’argomento cuore di questa serie horror così fuori dagli schemi, l’amore, ci eravamo accorti che sono i rapporti tra le persone, prima che il sovrannaturale, a essere centrali. Il rapporto tra le sorelle che si logora in Bly Manor echeggia tristemente lo sfilacciamento di quello tra gli instabili fratelli Crain nella prima stagione. L’elemento che rende questa penultima puntata così speciale rispetto alle altre è la capacità di aver descritto con crudele accuratezza, sebbene mascherata da mille metafore, l’orrore della malattia mentale.
Perché che cos’è la terrificante situazione di Viola, se non la metafora di un disturbo mentale?
Una condizione totalizzante che annulla ogni pulsione, una routine da incubo riassunta in questa frase, ripetuta allo stremo:
Si addormentò, si svegliò, si mise a camminare.
Un’ossessione che divora l’anima, una prigione in cui ci chiudiamo inconsapevolmente, e da cui inconsapevolmente cerchiamo di uscire aggrappandoci a ciò che di caro ci è rimasto. Finché non rimane più nulla, finché il nostro viso, e con lui i nostri ricordi, sono cancellati per lasciare spazio a un bisogno cieco e sordo che ci rende fantasmi.
E così ci addormentiamo, ci svegliamo, ci mettiamo a camminare. Fino a diventare automi, fino a quando nulla ha più senso e le stesse pareti della nostra casa sembrano scolorirsi per lasciare spazio a due soli colori. Se ci addormentiamo dimentichiamo il nostro dolore, anestetizzato dall’oblio chimico. Se ci svegliamo ci ritroviamo sempre nello stesso posto, la prigione mentale che ci protegge ma ci consuma fino a farci svanire. Se ci mettiamo a camminare, i nostri passi ricalcano quelli fatti in precedenza, ancora e ancora, mentre ci arrovelliamo su come uscirne.
Se incontriamo qualcuno sulla nostra via, possiamo fargli del male: non per crudeltà, ma per incolpevole bisogno di creare un contatto, qualcosa che dia un senso al nostro eterno vagare. Viola si risolve, trova una via d’uscita alla sua prigione, solo entrando nella mente dell’istitutrice: un sollievo alla sua eterna sofferenza o solo un’altra prigione, più spaziosa del baule pieno di gioie e del lago ma ricca di inenarrabili insidie?
L’ossessione di Viola diventa Dani, e questa volta non ci sarà un altro falò capace di bruciare l’ombra che quell’incontro fatale lascerà dentro di lei. Il male crescerà in silenzio, lasciando spiragli di felicità e lunghi anni d’amore e tranquillità. Ma poi salterà fuori, esploderà come il grido di un bambino lasciato a soffrire la fame.
Se prima Dani era condannata a vedere l’ombra del suo fidanzato dietro di lei, a sorvegliarla e incolparla silenziosamente, ora quel riflesso nell’acqua non riflette più lei, ma un’altra persona. La malattia è arrivata a prendersi la sua identità, a un livello così profondo da alterare l’aspetto delle cose.
The Haunting of Bly Manor è una spietata rappresentazione dell’orrore della malattia mentale, che crea i veri fantasmi. Inconsapevoli ombre che si mescolano ai “vivi”, prigionieri che cercano una via d’uscita o inghiottono altri nella loro orbita di dolore. La penultima puntata della stagione rappresenta magnificamente un discorso mai interrotto: il faro della storia che punta su Viola consente di entrare nella sua mente e osservare la sua parabola discendente, che trasforma una donna che aveva tutto nell’ombra di se stessa.
Un’anima né viva né morta, che esiste senza più vivere e senza poter morire, trascinando catene ben più pesanti di quelle che si vedono nei comuni film sui fantasmi.