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The Last Dance, l’esaltante ascesa di una superstar

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The Last Dance segna una svolta per le serie tv di genere sportivo e abbraccia in modo consapevole nuovi orizzonti narrativi. L’opera macina record di visualizzazioni e viene osannata da pubblico e critica per la capacità di dipingere un ritratto mai visto sul giocatore più rappresentativo della storia del basket: Michael Jeffrey Jordan.

MJ fu eletto il più grande atleta nordamericano del XX secolo dal canale sportivo ESPN ed è diventato un’icona del basket per tutti gli appassionati e non. MJ si dedicò alla vita sportiva fin dagli undici anni, giocando non solo a pallacanestro, ma anche a baseball e football. Nonostante i discreti risultati, abbandonò presto gli altri sport per dedicarsi esclusivamente al basket.

A livello individuale ottiene moltissimi riconoscimenti, tra cui sei MVP delle finali, dieci titoli di miglior marcatore (entrambi record), cinque MVP della regular season, dieci selezioni All-NBA First Team e detiene i record NBA per la media punti più alta nella storia della regular season (30,12 punti a partita) e nella storia dei playoffs (33,45 punti a partita).

Lo Show di Netflix ed ESPN ci trascina con cura maniacale dentro e dietro le quinte della stagione 97-98 dei Chicago Bulls, quella che ha avvicinato Jordan e soci all’Olimpo del basket grazie alla conquista del sesto titolo in otto anni. The Last Dance ci regala spunti di riflessione che vanno al di là del gioco, perché se è vero che Jordan è il simbolo sportivo dei Bulls, è l’umanità e le fragilità della persona che ci colpiscono in modo netto.

I giocatori, come ribadisce più volte The Last Dance, prima di essere professionisti sono soprattutto uomini con pregi e debolezze, gioie e dolori.

Spesso ce ne dimentichiamo noi per primi, obnubilati dal tifo. Tuttavia, la serie non fa sconti e delinea efficacemente il destino di un atleta che non perde mai di vista il suo obiettivo: vincere. Vincere per consacrarsi, per redimersi, per essere il numero uno. Ma quanto costa essere il numero uno?

Jordan prova a insegnarci che per dominare e non essere dominati dobbiamo porre le nostre responsabilità al di sopra dei sogni e combattere con stoicismo ogni sconfitta. I dieci episodi colorano ogni vicenda di verità e realtà e a noi sembra di entrare in quello spogliatoio, dove, più che una franchigia, c’è una corazzata di bambini che hanno fatto del basket un’ancora di salvezza per scappare dal quotidiano.

E quindi c’è Michael, ma non solo Michael. C’è Scottie Pippen, giocatore immenso e compagno ideale con cui Mj trova una chimica senza tempo. C’è Dennis Rodman, uno dei migliori difensori della storia NBA, nonché personaggio estremamente controverso fuori dal campo. C’è Steve Kerr, ottimo tiratore e oggi allenatore dei Warriors.

C’è una squadra che impone una regola: i risultati non si ottengono mai da soli. Ma è solo che si sente Jordan. Solo quando agli occhi degli altri risulta prepotente e tiranno per avere “la condanna “di essere il più forte. La sua leadership lo carica di esigenza e lo porta ad essere lontano da tutti gli altri. È la mentalità del campione, quel campione che allo stesso tempo si lascia andare alle lacrime durante le conversazioni con il regista. Quel campione trascendente i concetti di Bene e Male e autorizzato a dettare “Legge“ ovunque.

Immancabile poi il ruolo del mentore, cioè il coach Phil Jackson: un condottiero prestato allo sport, un maestro chiamato alla gestione di uno dei più problematici spogliatoi dello sport professionistico. The Last Dance si prende il vizio di cullarci attraverso flashback e salti temporali con cui ci affida la figura paterna di Mj e la sua morte. E da qui, dopo i primi tre titoli di fila assistiamo alla caduta, ovvero il primo, chiacchierato ritiro di MJ che portò Chicago a terminare il suo ciclo di vittorie, prima della rinascita del team grazie al ritorno in campo di Jordan dopo 17 mesi.

Caduta e ascesa, ascesa e caduta: due facce della stessa medaglia per una superstar che trasforma gli ostacoli in risorse da cui ripartire.

Ripartire dagli errori il bullismo verso Krause , la presunta ludopatia e scelte discutibili, per riconoscere i propri sbagli e passi falsi. Il 16 Aprile 2003 gioca la sua ultima partita con i Washington Wizards e a fine gara farà una dichiarazione d’amore verso il basket, sua anima gemella:

“Non ho mai mancato di rispetto al gioco e il gioco non ha mai mancato di rispetto a me”. Standing Ovation, ancora una volta, per sempre.


Michael e i suoi colleghi sono uno stimolo per chiunque, ci fanno riflettere sul peso della celebrità e ci ricordano che gli scontri e la sete di vittoria fanno a pugni con le personalità di ogni atleta. Jordan cambia la storia della pallacanestro, ci fa sentire a casa con le sue schiacciate e si pone come crocevia e unicum nel mondo dello sport. Tra il parquet e le stelle, tra i tormenti e una tripla, tra la resa e la sofferenza, la caduta e la rinascita c’è il più grande cestista di tutti i tempi: Michael Jeffrey Jordan.

“What time is it?” “It’s game time”

The Last Dance ci invita ad un ultimo ballo e tutti noi balliamo insieme alle ombre e alle luci di Michael Jordan.

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