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The Last Dance: Jordan l’eroe, Krause il cattivo. Ma siamo proprio sicuri?

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The Last Dance è stata una delle docu-serie sportive più di successo di tutti i tempi (vera svolta per l’intero genere). Un trionfo commerciale che ha monopolizzato le discussioni attorno all’NBA per un’estate intera (il titolo è uscito tra aprile e maggio del 2020). La produzione Netflix è stata subito osannata dalla critica statunitense e di tutto il mondo. D’altronde non sarebbe potuto essere altrimenti. Perché? Beh, Michael Jordan è un simbolo internazionale dello sport e della vittoria. Una sorta di manifestazione fisica di quel sogno americano che permea la cultura di tutta la società occidentale. Stiamo parlando della definizione fatta e finita di una superstar.

Black Jesus non è esattamente un nomignolo che ti viene affibbiato per caso, e chi conosce la storia del basket sa. Sa molto bene che MJ quel soprannome ha saputo meritarselo più di chiunque altro. The Last Dance è arrivata sugli schermi di tutto il mondo come un’ennesima glorificazione delle sue vicende. Il resoconto di una storia così grandiosa che ancora a distanza di decenni non ha smesso di affascinarci tutti. Eppure, anche un racconto così epico nasconde le sue zone d’ombra.

Il 12 gennaio 2024, durante l’inaugurazione del Ring of Honor dei Chicago Bulls, sul grande schermo è stata mostrata la foto del defunto Jerry Krause. A quel punto, i fan della franchigia hanno fischiato sonoramente, facendo scoppiare in lacrime la vedova del GM presente sul posto. Si è trattato di un fatto deplorevole, che vede sue radici proprio in The Last Dance. Per comprenderne le cause non rimane dunque che tornare alla docu-serie. Tornare a questo racconto tutto americano che, come la società a cui appartiene, si porta dietro un’infinità di contraddizioni.

The last dance (640x360)
The Last Dance

La narrazione, la verità e le responsabilità morali del documentario

Secondo le regole fondamentali del racconto, ogni forza positiva ha bisogno di un’antitesi, e così a ogni eroe deve corrispondere un nemico giurato. The Last Dance non rappresenta in questo senso un’eccezione. Nel corso delle 10 puntate che compongono la docu-serie, la narrazione fa infatti emergere diverse forze antagoniste. Si tratta nella maggior parte dei casi di avversari sportivi. Ad esempio, i famigerati Bad Boys Pistons di Isaiah Thomas. Ma il conflitto su cui il documentario insiste di più è quello tra gli stessi Chicago Bulls e il General Manager della franchigia del toro. Parliamo appunto di Jerry Krause.

Krause è raccontato come un uomo pieno di insicurezze. Afflitto da un complesso di inferiorità nei confronti dei giocatori che lo porta a fare decisioni a sfavore degli interessi della squadra. Il problema è tutto qui: si tratta solamente di un racconto parziale, se non anche fazioso. Le scene sono organizzate ad hoc per creare una narrazione precisa. Viene narrato un conflitto che certamente aggiunge pathos alle vicende della serie, ma che forza la realtà in una direzione prestabilita dalle leggi dell’intrattenimento.

In tutto questo, ciò che in maniera tragica viene a mancare è la presenza di Jerry Krause. Il dirigente sportivo è morto nel 2017 e non ha dunque puntuto prendere parte alle riprese del film.

The Last Dance (640x360)
The Last Dance

Così, si viene a creare una situazione in cui si racconta una persona vera come un’antagonista senza che questa possa avere nessuna possibilità di replica. Né all’interno di The Last Dance, né tantomeno nel contesto della vita reale (non si tratta tra l’altro dell’unica assenza di rilievo all’interno della serie). Questo solleva tutta una serie di forti implicazioni morali che, nel caso del documentario ancor più che per tutte le altre arti, diventano anche delle questioni estetiche. È lecito ai fini dell’intrattenimento inquadrare negativamente una persona defunta, che non può controbattere e non può difendersi? Davanti all’immagine della vedova che scoppia in lacrime in diretta televisiva, la risposta viene da sé.

Aggiungiamo al contesto qualche fatto, in maniera tale da rendere più chiara l’idea di ciò che è vero. Jerry Krause è l’uomo che ha draftato Scottie Pippen. Lo stesso che ha comprato Dennis Rodman e creato intorno a Micheal Jordan le squadre del primo e del secondo three-peet. È un sei volte campione NBA ed è stato eletto miglior general manager dell’anno in due occasioni: nel 1988 e nel 1996.

I Chicago Bulls degli anni ’90 non hanno vinto a discapito di Jerry Krause, ma hanno bensì beneficiato del suo importante contributo dall’inizio fino alla fine. Questa, prima e dopo The last dance, rimane la realtà dei fatti.

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The Last Dance

Volendo ampliare la questione, c’è da dire che la docu-serie Netflix risente suo malgrado della forte influenza del sistema mediatico sportivo americano. Soffre un contesto dove le narrazioni pensate per creare facili ascolti hanno molto più peso della realtà dei fatti. Così, negli states molta gente crede che Lebron James non sia uno dei più grandi scorer della storia (anche se detiene il record per il maggior numero di punti segnati in carriera). O ancora, crede che Stephen Curry non sia un giocatore decisivo (anche se chiunque abbia visto le finali NBA del 2022 sa benissimo che non è questo il caso). Jerry Krause è dunque soltanto l’ennesima vittima di una logica di comunicazione che segue le regole del click-bait, della dichiarazione shock, dello scandalo a tutti i costi.

Quando però ci si confronta artisticamente con la realtà, le responsabilità creative si fanno più grandi: i soggetti trattati possono subire delle ripercussioni, e il pubblico si aspetta di trovarsi davanti al racconto di una cosa vera. Se The Last Dance ha sicuramente dei grandi meriti come prodotto d’intrattenimento, le sue carenze in termini morali ci forzano a riflettere su cosa renda un documentario tale. Siano disposti ad accettare un racconto che può forzare la realtà a favore dell’intrattenimento, quando parliamo di persone che non hanno diritto di replica?

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