Quando si perde improvvisamente qualcuno il primo sentimento che si prova non è il dolore. Il dolore viene dopo, ti accompagna ostinatamente e silenziosamente ogni giorno, latente ma presente nella tua quotidianità. Prima del dolore però c’è la sorpresa. La più inaspettata, radicale e tragica sorpresa. L’incapacità di comprendere cosa è accaduto, di realizzare che sì, qualcuno non c’è più, è sparito, per sempre escluso dalla tua vita. La mente non lo comprende, è qualcosa che le è estraneo, che non fa parte di lei: semplicemente non capiamo. Non capiamo cosa sia successo, prima ancora che chiederci perché sia successo. Il tentativo di capire verrà soltanto dopo e porterà a risposte e comportamenti diversi per ognuno di noi, a diversi modi di affrontare e dare un senso a quel dolore che, placido e sordo, si sarà fatto largo dentro di noi, depositato sul fondo del nostro cuore. The Leftovers mette in scena questi due momenti, l’istante della sorpresa tragica e improvvisa e del dolore personale che ne segue.
Il primo momento accomuna tutti i personaggi di The Leftovers: sono smarriti, disorientati, inebetiti.
Non c’è spazio per la ragione: il 2% della popolazione mondiale è di colpo sparito del nulla. Non dobbiamo pensare all’aspetto fantascientifico della vicenda perché The Leftovers non ha nulla di fantascientifico. Questa sparizione improvvisa può capitare davvero nella nostra vita, senza preavviso, senza alcun sentore, senza ragione. The Leftovers ci mette di fronte a questa possibilità, all’eventualità che la nostra vita cambi per sempre lasciandoci un vuoto incolmabile. L’espediente della sparizione contestuale di milioni di esseri umani dà semplicemente l’occasione per analizzare contemporaneamente le diverse reazioni personali, i modi in cui ognuno di noi nella sua solitaria, inevitabile individualità affronta il dolore della perdita.
A dispetto del sottotitolo italiano (“Spariti nel nulla”), The Leftovers chiarisce già nell’intestazione che a interessare il racconto non è la fine che hanno fatto gli “spariti” ma i comportamenti dei “leftovers“, di chi è rimasto ed è costretto ad affrontare l’incolmabile sofferenza dell’assenza. A soffrire non è chi non c’è più. Soffre chi resta ed è chiamato a continuare la sua vita, a farlo nonostante tutto, trovando (o provando a farlo) la forza di andare avanti, a braccetto col dolore.
Ed è qui che il racconto si esalta, si eleva nel tono e ci mette di fronte a un’umanità tanto varia quanto tragica, sofferente ma pure vera e profonda.
Ogni personaggio di The Leftovers affronta in maniera diversa quell’incomprensibile sparizione che ha reciso legami intimi e teneri. Ognuno di loro è in un certo qual modo una parte di noi, un’anima che si agita nel profondo delle nostre emozioni e dei nostri pensieri. Quando la sorpresa lascia il posto al dolore dell’assenza abbiamo diverse strade di fronte a noi. La più comune è la razionalizzazione, il tentativo disperato e inevitabilmente infruttuoso di trovare un senso a quanto è successo, di capire il perché. Crediamo che avendo una risposta il nostro dolore si accheterà o sarà più gestibile. Inizia così un’autopsia in cui vivisezioniamo ogni dettaglio, ogni costanza che sembra possibile ravvisare in quella scomparsa. È quanto fa Nora per conto del governo: raccoglie testimonianze, compila moduli, cerca la costante che c’è dietro l’Improvvisa Dipartita. Ma la sua è una ricerca infruttuosa: a essere scomparsi sono brave persone e criminali, bambini e vecchi, malati e sani. Una sola è la costante, ed è la stessa che ci investe tutti in prima persona quando perdiamo qualcuno: la casualità. La più assoluta, crudele casualità.
Non c’è una logica nella morte, non se ne vanno i migliori o i peggiori.
Non se ne va chi lo merita o chi è innocente. È un caso imprescrutabile, un destino se si preferisce, e siamo inermi di fronte a un mondo che continua a girare nonostante tutto e ci chiede di accettare questa insensatezza. Così Nora non può far altro che continuare stancamente la sua vita reiterando azioni e comportamenti che ormai non sono altro che vuote imitazioni dei gesti di una vita passata, accanto alla sua famiglia.
Nora in The Leftovers ci introduce così al secondo modo possibile di affrontare la scomparsa: vivere nel ricordo. La donna ripete meccanicamente gli acquisti che faceva per la sua famiglia sostituendo costantemente i prodotti per bambini scaduti con quelli nuovi, in un eterno ritorno. Vivere nel ricordo, però, significa non vivere davvero: vuol dire cristallizzare la propria vita, svuotarla di valore, ritualizzarla in una realtà fuori da ogni tempo, in un’eternità senza uscita. È la stessa scelta che compiono Laurie e i Colpevoli Sopravvissuti, una setta che ha deciso di non dimenticare, di costringere se stessi e ognuno di noi ad avere sempre in fronte la memoria dei cari scomparsi. Tutta la loro vita si consacra così alla perdita, nel silenzio delle parole e nell’assenza di colore dei loro abiti.
Sono sepolcri imbiancati, vuote lapidi che recano su di sé solo uno stringato epitaffio: “ricordate“.
Hanno smesso di vivere, pensano di non poterlo più fare. Sono convinti che l’unica possibilità sia riattualizzare eternamente quella sofferenza, avere sempre sulla fronte il marchio di sopravvissuti nel nome dei dipartiti. Lo fanno perché non possono accettare che la vita vada avanti, che lo strazio dell’abbandono sia dimenticato, che si torni alla normalità. Succede anche a noi di consacrare una parte della nostra vita al ricordo. Lo facciamo perché abbiamo paura. Paura di dimenticare, di lasciarci alle spalle un legame che ha rappresentato qualcosa di importante per noi. Temiamo che la memoria si annebbi, che la sua voce si faccia sempre più incerta, il suo volto più confuso, i nostri momenti insieme meno vividi. Allora creiamo un santuario, un luogo in cui il tempo si sia fermato e che nessuno può portarci via, quello solo. Siamo genitori che hanno perso un figlio e lasciano per sempre la sua camera inviolata, sancta sanctorum di un affetto imperituro.
Ma se ci tumiliamo in quel luogo sacro non viviamo più, finiamo anche noi al di fuori del tempo, per sempre immobili, tombe senza vita.
E allora siamo costretti a tornare nel mondo: vediamo quel mondo sotto occhi nuovi anche se tutto sembra identico, immutato e immutabile. La vita scorre come prima, come se nulla fosse ma non è come se nulla fosse. E allora bestemmiamo il nostro dolore, sputiamo la nostra rabbia addosso agli altri, a quegli “altri” che sembrano andare avanti. Non accettiamo che tutto continui. Diventiamo Kevin, il protagonista di The Leftovers, scisso tra i doveri di padre e poliziotto e l’incapacità di tenere insieme un mondo che sembra collassare su se stesso. Non sono solo il mondo esteriore e il microcosmo della sua famiglia a sfaldarsi irrimediabilmente ma anche il mondo interiore: Kevin ha visioni, vuoti di memoria, sogni angoscianti. A implodere su se stessa è la nostra vita interiore nelle sue speranze, credenze e atti di fede. Non c’è più spazio per i desideri e le aspettative, per il bene e la bontà. Per credere.
Kevin, di notte, diventa un altro, realizza ciò che la veglia non gli permetterebbe mai: di sfogare tutta quella rabbia mista a dolore che nutre dentro di sé. Il suo incoscio più irrazionale trova finalmente sfogo in una vera e propria scissione interiore.
Depone le vesti di genitore e tutore della legge, di granitica àncora di salvezza per tutti e svela la sua debolezza.
Anche noi esteriormente sentiamo il bisogno di essere forti. Di esserlo per gli altri, per chi soffre come e più di noi. Mettiamo in secondo piano il nostro dolore, lo consideriamo di serie b, dobbiamo essere roccia e ci vestiamo da roccia. Ma la verità è che soffriamo, soffriamo maledettamente e ci sentiamo fragili come gli altri. Vogliamo urlare il nostro dolore. Le notti, nel silenzio e nel buio, offrono a noi come a Kevin questa possibilità, diventano terreno di sfogo di tutte le nostre tensioni, momenti da consacrare a noi stessi.
Kevin pensa di impazzire, noi crediamo di impazzire. Ma allora come trovare la forza di sopravvivere e tornare a vivere? Qual è la soluzione? The Leftovers ci dice che non è nella spiegazione razionale di quella perdita e neanche nel dolore in sé e per sé. Ma è nei legami che ancora sopravvivono, nella forza di creare una nuova famiglia senza sentirci colpevoli di tradire quella passata. Di amare di nuovo senza per questo dimenticare il nostro amore perduto. Nel ricordare, senza perderci in quel ricordo. Ricordare. Ricordare in maniera attiva, viva, facendo sì che quel ricordo trovi senso nella quotidianità nostra e degli altri.
Solo così usciamo dal mortifero sepolcro senza lasciarci alle spalle il dolore che continueremo a portare inciso sulla fronte. Solo così potremo far riapparire chi è svanito. Continueremo a soffrire. Sempre. Il dolore sarà lì, sedimentato in profondità, un rumore di fondo che ci accompagnerà ovunque ma impareremo ad accettare quel dolore, perfino ad amarlo. Perché sarà la testimonianza eterna di quanto abbiamo amato, una forma d’amore che sopravvivrà.
A sopportare il peso dell’assenza in The Leftovers non sono i dipartiti, sono gli altri.
Alcuni falliranno perdendosi nell’impossibilità di comprendere, altri nel ricordo vuoto, altri ancora nella rabbia e nelle false speranze di sedicenti taumaturghi. Ma ci sarà anche chi avrà la forza, alla fine, di ricostruire la propria vita e accettare ciò che è accaduto, di aprirsi perfino a nuovi sentimenti. A loro dobbiamo rivolgerci noi. Anche se non sarà facile, anche se ci sentiremo, sbagliando, in colpa. Anche se continueremo a soffrire. Perché, in fondo, ce ne rendiamo conto ora: soffre solo chi resta. È il nostro peso e la nostra responsabilità.
A tutti i leftovers che soffrono una perdita
Vi lasciamo con un’utilissima guida alla serie for Dummies