I finali aperti a qualunque interpretazione sono sempre un azzardo, perché dopo mesi e magari anni trascorsi a guardare una serie tv è difficile accontentarsi di un semplice invito a crearsi autonomamente la propria spiegazione.
Abbiamo atteso così tanto per vedere finalmente tutti i nodi venire al pettine e dateci pure dei pigri, ma spesso preferiremmo e meriteremmo delle risposte chiare e univoche, che chiudano il cerchio lasciandoci soddisfatti di aver investito il nostro tempo (nottate insonni, in molti casi) nel dare fiducia a una storia. Per questo motivo probabilmente, ma anche per altre ragioni legate alla specificità di questa serie, The Man in the High Castle (qui potete trovare la recensione senza spoiler, per chi non l’abbia ancora guardata) è giunta al termine deludendo una larghissima fetta del suo folto seguito.
Prima di tutto bisogna ammettere che i problemi di The man in the High Castle cominciano ancora prima del suo episodio conclusivo, risalendo come un insidioso rampicante fino all’inizio della quarta e ultima stagione. Ed è difficile farlo, perché non solo la serie Amazon Prime Video è una tra le migliori proposte originali della piattaforma, ma si tratta anche di un prodotto che chiede allo spettatore un vero e proprio sforzo di pazienza per essere guardato fino alla fine nonostante tutto, promettendogli in cambio emozioni che non dimenticherà mai e riflessioni che lo toccheranno nel profondo.
La stagione conclusiva innanzitutto risente di un’assenza che pesa come un macigno: la frettolosa e arrangiata uscita di scena del Ministro del Commercio Tagomi.
La sua dipartita, infatti, oltre a non essere compensata da significativi sviluppi della trama legati alla sua morte, rende il pubblico orfano di una guida, forse l’unico faro nel buio spettrale che avvolge la realtà distopica in cui è ambientata The Man in the High Castle. Inoltre, l’avvincente groviglio di personaggi e situazioni che ha decretato il successo delle prime 3 stagioni della serie, si tramuta nella quarta in un grumo di confusione che inceppa l’ingranaggio e appesantisce il racconto: il taglio corale della narrazione, che sposta ora l’attenzione su nuovi volti e ancor più intricate sottotrame, avrebbe potuto essere sfruttato meglio completando gli archi narrativi dedicati ai protagonisti originari.
Una nota positiva invece riguarda la svolta fantasy che giunge finalmente a compimento: la cadenzata metamorfosi che ha portato The Man in the High Castle dall’essere un racconto fondamentalmente storico (benché ucronico) a diventare una vera e propria saga fantascientifica arricchisce la serie di un camaleontismo originale e ben gestito, che si amalgama perfettamente al realismo della narrazione.
L’argomento che più di tutti, però, lascia un interrogativo insoluto è il discusso finale di serie: con l’ultimo dei 10 episodi che compongono la stagione conclusiva di The Man in the High Castle, assistiamo infatti non solo all’epilogo dei percorsi intrapresi dai protagonisti, ma anche e soprattutto a un evento epocale che cambia il mondo.
A San Francisco, l’ispettore capo Kido riesce a fuggire dalla Black Communist Rebellion e diventa il principale consigliere della Yakuza in cambio della libertà di suo figlio: ci saremmo forse aspettati una fine diversa per un personaggio che nel corso della serie ha scoperto in se stesso più alti principi verso cui orientare la propria inflessibile tempra morale. Ma benché la ritrovata umanità, sepolta sotto anni di asservimento valoriale, sia una conquista dalla straordinaria forza purificatrice, la brutalità dei compromessi a cui è stato disposto in nome di una cieca fedeltà all’Impero giustifica probabilmente la nuova subdola prigionia in cui è caduto.
A New York intanto, a stravolgere il corso degli eventi che conducono all’epilogo c’è il lucido e disperato sfogo di Jennifer Smith: la ragazzina inveisce contro la madre, accusandola di aver alimentato insieme a John la follia nazista e persuadendola che proprio il padre, appena eletto Führer dell’Impero nordamericano, sarà al comando di una nuova agghiacciante ondata sterminatrice. Atterrita da una consapevolezza a lungo soffocata e finalmente esplosa in tutta la sua sconcertante tragicità, Helen sceglie di sacrificare suo marito, offrendo la propria cruciale collaborazione a Juliana e alla Resistenza.
Quella stessa consapevolezza, che si dispiega implacabile davanti agli occhi di John Smith (una straordinaria prova attoriale per Rufus Sewell) solo quando si rende conto di aver perso tutto, come una catartica bufera soffia dietro i passi che lo conducono ai piedi di un precipizio. Accanto a Juliana, in bilico su quel burrone, abbiamo trattenuto anche noi il fiato mentre John poneva fine a una vita di scelte forse in fondo sofferte ma imperdonabili, e allo stesso tempo offriva l’estremo rimedio a una realtà distorta e disumana.
Per volere del secondo di Smith, infatti, vengono immediatamente interrotti gli attacchi aerei lungo la costa occidentale. Sulla via del ritorno alle miniere occupate dalla Resistenza, Juliana attraversa un passaggio già visto in uno dei filmati di cui era protagonista, ritrovandosi dinanzi al macchinario per il passaggio dimensionale: proprio qui si ricongiunge a Wyatt e Hawthorne Abendsen, l’uomo nell’alto castello. A questo punto inspiegabilmente il portale si apre e fiumi di persone indefinite lo attraversano entrando in questa dimensione. Hawthorne è l’unico ad andare controcorrente: percorre infatti il cammino inverso dirigendosi verso il portale, ed è così che The Man in the High Castle ci dà il suo personalissimo addio.
In merito alla controversa scena finale della serie, lo sceneggiatore dell’ultima stagione, David Scarpa, ha dichiarato: “Ciò che dovrebbe essere chiaro a qualsiasi spettatore è che il portale è essenzialmente aperto e rimarrà aperto. In effetti, questo significa che due mondi sono diventati uno. C’è una porta che va da un mondo all’altro e ora le persone possono muoversi liberamente tra di essi”.
Juliana afferma che le persone stanno arrivando da “ovunque”. Sono le anime di coloro che erano morti durante le epurazioni naziste e giapponesi, o loro versioni alternative provenienti da altri mondi? Oppure due versioni della stessa persona possono ora condividere lo stesso spazio tempo? È possibile attraversare il portale nella direzione opposta alla ricerca dei propri affetti scomparsi, come probabilmente tenta di fare Hawthorne con sua moglie? The Man in the High Castle non ci fornirà mai le risposte che cerchiamo, e questo finale rimesso alla libera rappresentazione del pubblico pare un escamotage volto a celare la carenza di quel guizzo creativo che ci saremmo aspettati, come degna conclusione di una serie che ha incrementato le nostre aspettative puntata dopo puntata.
Oppure la nostra attenzione verso una decodificazione esplicabile in qualunque direzione, e forse in fondo non indispensabile, è semplicemente mal riposta: tutto ciò che rimane di una serie come The Man in the High Castle è il suo più doloroso e profondo messaggio, ed è lì che dovremmo concentrare la nostra ricerca di senso. Invece di sapere a chi appartengono i volti sfocati che attraversano il portale, è importante forse ricordare l’espressione devastata di John Smith. Davanti a quella voragine che rispecchia il vuoto della persona che è diventata, l’uomo e non più l’ufficiale nazista si rivolge a Juliana e a tutti noi, pronunciando le sue ultime parole.
Ne abbiamo viste di cose, tu e io. Altri mondi, altre vite. Questo ce lo abbiamo in comune. È insopportabile attraversare quel portale e vedere tutte le persone che potevi essere. E sapere che, di tutte…È questa quella che sei diventato.