Con The Man in the High Castle (cinque parole per descriverla? Le trovate qui) Amazon ha trasposto in una serie di quattro stagioni (vi suggeriamo la nostra recensione a quella conclusiva) l’ucronia plasmata da Philip K. Dick nelle pagine dell’omonimo romanzo datato 1962.
Il concetto di ucronia indica uno scenario caratterizzato da una deviazione degli eventi storici rispetto al corso tracciato nella realtà. Nel caso specifico, la deviazione riguarda l’esito della seconda guerra mondiale e sancisce la vittoria delle potenze dell’Asse sugli Alleati. Da questo cambiamento consegue la spartizione degli Stati Uniti d’America in tre blocchi: il Grande Reich Nazista a est, gli Stati giapponesi del Pacifico a ovest e gli Stati delle Montagne Rocciose, meglio noti come Zona neutrale, al centro, a fare da cuscinetto tra i due imperi.
Le vicende narrate sono ambiente in una fase successiva al termine del conflitto bellico, eppure a ben vedere è proprio una guerra quella che The Man in the High Castle mette in scena. Non una di quelle proclamate dai capi di stato, dove a contrapporsi sono gli eserciti dei rispettivi paesi. A scontrarsi sono due blocchi di valori, due visioni del mondo, due diverse prospettive sulla civiltà e sulla storia. La guerra ancora in atto è quella tra libertà e repressione, tra autoritarismo e democrazia, tra ciò che è coscienza e umanità e quel che ne rappresenta la negazione più violenta e spietata.
È una guerra in cui la protagonista, Juliana Crain, si ritrova implicata per questioni personali più che per ragioni ideologiche e di cui diventerà la più fiera combattente. Impegnata a condurre la sua vita tra la convivenza con il fidanzato Frank e le lezioni di Aikidō che tiene, Juliana sembra aver raggiunto un buon grado di accettazione nei confronti del dominio giapponese che il trionfo dell’Asse ha sancito su San Francisco. Tutto cambia quando sua sorella Trudy le affida una pellicola dal titolo La cavalletta non si rialzerà più, il cui contenuto, come testimoniato dall’assassinio di Trudy da parte della polizia giapponese, è una minaccia allo status quo vigente. Il motivo è presto svelato: le immagini incise sul nastro mostrano una realtà alternativa in cui gli Alleati risultano vincitori.
Decisa a indagare sulle cause della morte della sorella, Juliana si impegna a trasportare la pellicola nel luogo in cui era previsto che Trudy la portasse. È a tutti gli effetti un passaggio di testimone. Seppur in maniera non del tutto consapevole, prendendo in custodia il filmato Juliana fa il suo ingresso tra le file di uno dei due schieramenti in gioco, quello costituito da coloro i quali hanno deciso di opporsi al dispotismo imperante: la Resistenza. Ad animarla sono proprio bobine come quella posseduta da Juliana, la cui circolazione è legata alla misteriosa figura dell’uomo nel castello alto. La Resistenza non è mossa da interessi materiali, ma da un ideale comune, lo stesso che le pellicole sostanziano durante le proiezioni clandestine che alimentano il fuoco della ribellione.
Quel fuoco arde silenzioso, in attesa del momento giusto per arrivare a divampare.
Si nutre di una progettualità portata avanti di nascosto ma meticolosamente, di un’opera di reclutamento costante, di pericolose azioni di sabotaggio. Per nutrirlo, i membri della Resistenza sono disposti a imbracciare le armi e a sporcarsi le mani, perché è questo che accade in guerra: si versa il sangue dei nemici e il proprio. In guerra si viene feriti, si compiono dei sacrifici e, soprattutto, si muore. Lo dimostra la sorte di Trudy, ma anche quella di Frank, di Tagomi e di tutti gli uomini e le donne vittime di questa guerra combattuta con coraggio e ad armi impari.
Anche quando è lo strumento per perorare una giusta causa, la guerra resta orrore e sofferenza, perdita e distruzione. È ciò di cui è fatta la sua stessa essenza e The Man in the High Castle non la snatura né la ingentilisce, ma la mostra in tutta la sua cruenta evidenza, rimarcando i pericoli che essa porta a correre e le colpe di cui spinge a macchiarsi. In guerra non ci sono santi, ma solo soldati destinati al macello, e combattere è immensamente penoso per chi è costretto a farlo. La speranza è che dalle ceneri della tragedia possa emergere un mondo migliore, uno per cui sia valsa la pena lottare e patire.
La guerra in The Man in the High Castle in realtà non si è mai conclusa, ma infuria sin dal principio, e da spettatori vale la pena affrontarla per ricordarsi quanto sia importante non tirarsi indietro e combattere quando il potere si impone in maniera tirannica.
Perché se le cose sarebbero potute andare diversamente, vuol dire che c’è ancora un modo per cambiarle.