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Quando una serie tv arriva a quota nove stagioni, non si può pretendere che mantenga sempre i presupposti e il livello delle origini. Negli anni le cose cambiano: cambiano i personaggi, le esigenze degli attori che li interpretano, le emozioni del pubblico e la voglia che ha di fruire di ciò che ha davanti. Insomma, cambia praticamente tutto. Ed è per questo che nella stragrande maggioranza dei casi spero che le mie serie del cuore non arrivino mai alla nona stagione. Anzi, se possibile, nemmeno all’ottava. Non mi va di dover rimpiangere ciò che sono state, ciò che mi hanno trasmesso, lo sviluppo dei personaggi che ho amato. Cosa, questa, che accade quasi sempre in questi casi, ed è accaduta anche con una serie che credevo avrebbe potuto fare la differenza da questo punto di vista: The Office.
Sia chiaro, The Office è una delle sitcom che più ho amato in assoluto. L’ha amata molto anche la nostra Comunità di recupero, che l’ha votata tra le 10 migliori serie comedy di sempre. Non si può però negare come abbia subito non pochi cambiamenti nell’arco del suo lungo percorso narrativo. Credo di non dire nulla di nuovo affermando che a questo proposito c’è un innegabile punto di svolta: l’abbandono della serie da parte di Steve Carell aka Michael Scott, colui che per sette stagioni ha portato sulle spalle il peso di una serie corale che però vedeva proprio in lui il principale protagonista.
Michael Scott, direttore della filiale di Scranton della Dunder Mifflin e manager regionale, è il capo che nessuno mai vorrebbe e che però tutti vorremmo anche solo per un giorno. È il pilastro dell’azienda e della serie, colui senza il quale la vita aziendale e la trama non possono restare uguali a loro stesse.
Nella trama di The Office esiste un prima e un dopo Michael Scott.
Il prima è la serie che tutti gli spettatori ricordano con affetto. È la The Office del parkour, del That’s what she said e del World’s best boss, un capo che vuole a tutti i costi essere un amico e che alla fine, con i suoi modi discutibili, ci riesce anche. È la serie della confusione e delle gag involontarie, delle relazioni sentimentali discutibili e di quelle di amicizia che si rafforzano. La The Office di Michael Scott è quella che più di una volta ho sentito descrivere come “la vera The Office“. Io non so se posso arrivare a tanto, perché anche dopo la settima stagione questa serie è stata in grado di regalarci delle incredibili perle. E secondo me anche di dare un nuovo spessore ad alcuni personaggi, ma questa è un’altra storia.

Ma se la serie dopo Michael è una serie non necessariamente meno vera, di sicuro è una serie in qualche modo diversa nell’essenza. Non è facile sostituire un personaggio capace di farsi adorare e detestare come Michael Scott. E quando The Office si è ritrovata a fare i conti con questa realtà, le conseguenze sono state abbastanza visibili. Una serie che era stata nelle stagioni precedenti una certezza, diventa un enorme punto interrogativo. Chi sostituirà Michael Scott come manager regionale? Chi occuperà la poltrona nel suo ufficio con l’onore e l’onere di mantenere la rotta giusta per la filiale e per la serie? Dopo la (per fortuna) brevissima parentesi di Deangelo Vickers, all’inizio dell’ottava stagione è a Andy Bernard che viene affidato questo arduo compito. Il risultato? Basta leggere il titolo di questo pezzo per capire come è andata.
Andy Bernard è uno di quei rari personaggi in grado di alterare la percezione di loro.
Arrivato nella serie “solo” nella terza stagione, nel tempo di lui si perde il ricordo del fatto che non sia parte del cast originale. Vi dirò di più, io stessa ho dovuto fare un piccolo controllo prima di scrivere questa frase, perché un ricordo indotto mi aveva convinta che Andy fosse arrivato con una stagione di anticipo. A prevalere ogni volta è la sensazione che Andy sia sempre stato lì alla sua scrivania, che abbia sempre chiamato Jim Tuna, si sia sempre vantato del suo passato alla Cornell e abbia sempre approfittato di ogni occasione per mostrare le sue doti canore. Più si va avanti nelle stagioni, più dimentichiamo che nei primi episodi quasi lo odiavamo. O per lo meno lo odiavo io.
Ci viene presentato, ancora nella filiale di Stamford, come il nuovo fastidioso collega di Jim, una persona irascibile e non particolarmente piacevole. Con il passaggio a Scranton però cominciamo a conoscere una persona diversa. Andy entra a far parte del cast quello serio, prende il suo posto nell’ufficio e tra le simpatie dei telespettatori. Cresce, matura, impara a gestire la sua rabbia e a far conoscere di sé il lato più genuino, più profondo e più tenero. Nelle stagioni centrali di The Office quella di Andy Bernard è una vera ascesa: sono le stagioni in cui diventa un personaggio amato, di quelli di cui la serie comincia a non poter più fare a meno. E nel momento dell’incertezza sul futuro, è proprio a Andy che viene affidato il difficile compito di guidare la Dunder Mifflin di Scranton e tutta la serie sulla sua nuova strada.

Qui il punto è uno: quali forze hanno spinto questa decisione?
Mi spiego meglio. Se da un lato penso che gli autori abbiano in qualche modo voluto promuovere Andy nel suo doppio binario come membro della Dunder Mifflin e parte del cast della serie, dall’altro mi sembra quasi che il personaggio sia stato più che altro sacrificato. Perché, sotto sotto, gli autori sapevano benissimo che la sua sarebbe stata una mission abbastanza impossible. Che poi tra l’altro non sarebbe la prima volta che Andy viene immolato dagli autori. Mi riferisco alla trama relativa alla sua storia con Angela, una relazione palesemente sbagliata e che infatti termina con un Andy tradito. Il tutto, dopo essersi impegnato a organizzare il matrimonio perfetto. Beh, che dire, forse tutto questo bene gli autori non gliel’hanno mai voluto.
Fatto sta comunque che Andy riesce pian piano a prendersi lo spazio che merita. Ma nelle ultime due stagioni, quando gioca il tutto per tutto, si ritrova a perdere buona parte di ciò che duramente aveva guadagnato. Ed è – sempre secondo la mia personale opinione – un tremendo peccato. Le basi, effettivamente, c’erano. Tra i personaggi di The Office, Andy è infatti quello che più di tutti poteva creare dinamiche che ricordassero quelle che avevano come protagonista Michael. Non il miglior venditore dell’ufficio, né il più sveglio o carismatico, proprio come Michael Andy è quasi sempre inconsapevole di quale sia la reale percezione che gli altri hanno di lui. E soprattutto, sempre come Michael, ha un disperato bisogno di attenzioni e di affetto. Due elementi, questi, dal potenziale narrativo e ironico pressoché infinito.
Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo il mare.
Un’idea potenzialmente valida si è trasformata in una realizzazione che non solo non ha salvato l’ultima parte della serie dall’essere considerata inferiore alle stagioni precedenti, ma ha anche tirato giù nel baratro un personaggio dalla bella evoluzione. (non per niente è nella lista di personaggi che hanno smesso di divertirci). Andy passa buona parte del suo tempo come manager regionale fuori dagli uffici di Scranton. La prima volta lo fa per andare a riprendere quello che in teoria doveva essere l’amore della sua vita. Ma con un benchmark come quello della storia tra Jim e Pam, la relazione tra Andy ed Erin proprio non ce la fa a competere. E infatti crolla a picco. La seconda volta lo fa per partire in mare con suo fratello, cosa che gli costa la relazione e anche qualcosina in più.

Preso da se stesso, dalla smania di essere amato da Erin e considerato dalla sua famiglia, Andy perde la bussola. Se le scelte stravaganti di Michael erano tutte comunque coerenti con il suo modo di essere, di vivere la vita e le relazioni, le scelte stravaganti di Andy cominciano a non avere un senso. Alla scarsa presenza si affianca un ritorno sempre più vivo all’Andy di prima, quello che avevamo conosciuto nella terza stagione e visto trasformarsi in quelle successive. Un Andy arrabbiato, geloso, invidioso. E se l’insoddisfazione di Michael come persona riusciva sempre a lasciare spazio alle sue fantasie, aprendo anche a noi in ogni puntata le porte di un mondo tutto suo, l’insoddisfazione di Andy si fa sentire forte e chiara.
Ma come si può affidare a un personaggio perso le redini da ritrovare? Non si può, ovviamente.
E mentre The Office si avvia verso la fine, Andy cade a picco. Scelta sbagliata dopo scelta sbagliata, si allontana da se stesso e dai suoi colleghi per provare a vivere un sogno che non lo porta da nessuna parte. E mentre tutti gli altri riescono in qualche modo a trovare se stessi sul finale di stagione, l’epilogo di Andy è chiaro sul fatto che per lui il destino dopo il documentario non è stato così roseo. “I wish there was a way to know you’re in the “good old days” before you’ve actually left them”: è così che si conclude il suo percorso, con una nostalgia che non può che farci tanta tenerezza. Questa frase lo dice forte e chiaro, Andy non ha salvato The Office, e non si è nemmeno salvato da solo. Non ha avuto la giustizia che meritava.
Ma come ogni grande serie che si rispetti, non bastano due stagioni a farci cambiare la percezione che abbiamo di lei. The Office era, è e sempre resterà nell’Olimpo delle sitcom e della serialità intera. E se negli anni la critica ha da una parte lodato e dall’altra criticato duramente Andy, io continuo a tenerlo nel mio personale Olimpo dei personaggi delle serie tv. Fastidioso, bisognoso di conferme, a volte un po’ noioso ma dal cuore buono: è così che vedo ancora Andy, un po’ simile a come vedo la sottoscritta. Forse è per questo che mi piace. E, conoscendolo almeno un po’, credo che dopo un articolo forse un po’ duro nei suoi confronti sarebbe comunque ben felice di leggere che di amarlo, io, non ho ancora smesso.