The Office è pensato e giocato sull’imitazione di un documentario, è cioè, con espressione più tecnica, un mockumentary. Ciò che vediamo, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono altro che riprese di una troupe che sta studiando la vita lavorativa di impiegati in un ufficio. Queste espediente, già presente nella serie britannica da cui ha preso le mosse quella targata USA, facilita ovviamente le transizioni comiche. Ci permette per esempio di prendere a parte un personaggio e interrogarlo sui suoi pensieri e su quello che non può dire davanti agli altri. Di approfondire così la sua psicologia, i pensieri che lo animano, il rapporto che intercorre con gli altri colleghi. Non c’è nessuno che si sottrae a questa intervista: ogni protagonista di The Office sembra quasi chiamato a farlo.
Eppure, c’è qualcuno che va oltre, che arriva a instaurare un rapporto diverso e per certi versi opposto per prospettiva con la telecamera e con lo spettatore. Questo personaggio è Jim Halpert. Per capire a cosa ci riferiamo sarà utile partire dall’analisi della serie madre, la versione UK in cui figura lo stesso creatore, Ricky Gervais, nel ruolo del capo inetto. In questo scenario “Jim” si chiama Tim ed è interpretato da un impeccabile Martin Freeman.
La più limitata durata della serie, appena quattordici puntate per due stagioni, ci permette di entrare rapidamente in confidenza con tutti i personaggi e carpire la personalità di Tim. Appare chiaro fin da subito che il protagonista abbia ben altre qualità rispetto ai colleghi, una più spiccata intelligenza e una prontezza di spirito che si uniscono però a una completa incapacità di dare una sterzata alla propria vita, di uscire dall’impasse in cui si è ficcato da solo, per paura, per inedia, per inerzia. Dietro la risata, dietro i continui scherzi si nasconde il suo volto triste di clown frustrato e oppresso.
Non è molto diverso per Jim in The Office US.
Qui il protagonista soltanto nella parte finale della serie riuscirà a spiccare il volo, fare il grande salto verso un sogno troppo a lungo riposto nel cassetto. Un lieto fine che riconnette Halpert con le sue aspirazioni e gli permette di far emergere le qualità che ha sempre nascosto dietro la mancanza di ambizione. Fino a quel risolutivo momento però Jim vive in un grottesco mondo capovolto in cui, se non fosse per Pam, rischierebbe di risultare completamente solo. Senza possibilità di essere capito nelle sue battute, negli scherzi ai danni di Dwight e nel rapporto assurdo con Michael.
Spesso e volentieri in questi momenti Jim cerca un conforto e una spalla proprio in Pam che mostra un’affinità elettiva con lui per prontezza e immedesimazione. Non ci sono dubbi che sia lei l’ago della bilancia che permette al compagno di non impazzire, di non restare del tutto incompreso in una realtà fatta di personaggi assurdi, sciatti, provinciali e a tratti semplicemente inetti. Ma quando Pam non è lì, quando lo sguardo di Jim non può incrociare il suo ecco allora che la prospettiva cambia.
Jim deve cercare qualcun altro che può capirlo, qualcuno che può dargli manforte e dirgli implicitamente che no, non è lui il pazzo. Qualcuno che gli confermi che tutto quello che lo circonda è davvero assurdo e cringe e malato. Quel qualcuno siamo noi. La Jim-face a favore di camera è cosa nota e apprezzata, un inside joke che il personaggio condivide con gli spettatori. In quel gesto non siamo più noi a guardare The Office, a guardare la scena e il protagonista: no, è lui che guarda noi. Ci fissa più e più volte.
Lo fa sempre in momenti particolari che ci aiutano così a comprendere il senso di quegli sguardi.
Lo fa quando qualcuno abbocca a un suo scherzo, quando spinge Michael a fare un’assurdità o semplicemente quando in scena si verifica qualcosa di strano, sopra le righe. In quei momenti, quando Jim ci guarda e non viceversa, è allora che ci sta strizzando l’occhio. Sta cercando il nostro sostegno bucando la quarta parete, rivolgendosi a noi che soli insieme a lui, in quei momenti, possiamo capire la sottigliezza o sorprenderci come lui dell’assurdità.
In altre parole siamo noi la sua ancora di salvezza. Nel microcosmo di The Office ad apparire in scena sono i più bozzettistici, mediocri, ordinari personaggi (anche se c’è una straordinaria bellezza nelle cose ordinarie). Jim rappresenta l’eccezione, è trasposizione narrativa dello spettatore che si trova catapultato in questa fiera del ridicolo e del paradossale. Ma se per noi è facile prendere le distanze, stando di fatto al di fuori di quello scenario, spettatori esterni e quindi “in salvo”, per Jim tutto ciò non è possibile. Per lui quel mondo è reale. Per questo ha bisogno di noi, ha bisogno di un contraltare, di qualcuno che lo capisca e che implicitamente lo assecondi e rassicuri.
Ecco allora il perché di quegli sguardi d’intesa, di quella voluta complicità che l’affascinante e sveglio Jim crea con noi.
Noi possiamo capirlo perché lui è noi e noi siamo lui. Capaci di ridere alle battute argute e agli scherzi più bassi, provare imbarazzo di fronte alla malriuscita simpatia di Michael e alla rigida etica militaresca di Dwight. Siamo i suoi migliori amici, quelli su cui può contare sempre e che sempre lo capiranno e rassicureranno. Ed è per questo che in questo -e solo questo- caso è Jim Halpert a guardarci e non viceversa. Soggetto, come noi, dell’ironia e non oggetto schernito e messo alla berlina, come gli altri, per la loro ordinaria, banale, mediocre (eppure straordinariamente divertente) quotidianità.