Un capo non è mai solo un capo. Non è solo la persona a cui dare conto del proprio lavoro giornalmente, settimanalmente o mensilmente: i capi migliori non sono così. I capi migliori investono testa, anima, corpo e cuore nel lavoro dei loro dipendenti, ma non solo. Si interessano delle loro vite e talvolta entrano nelle loro vite, in maniera più o meno intensa. Michael Scott, quando ha cominciato a fare il capo, non era per niente tagliato per questo ruolo. Era un bizzarro ma bravissimo venditore, messo al posto di comando per assenza di valide alternative e per uno strano incrocio del destino. Nemmeno a lui piaceva quel che faceva, non davvero: al punto che quando si trovò a dover fare il secondo lavoro per un call center, al fine di sbarcare il lunario, sembrava addirittura più felice rispetto ai momenti della giornata in cui era in qualche modo costretto a vestire i panni del capo-ufficio. Sembrava restituirsi alla sua vera dimensione: spensierata, scevra da ogni responsabilità diversa dal portare a termine più contratti e vendite possibili durante il giorno. Ma le dimensioni cambiano, e anche Michael è cambiato.
Michael Scott è entrato nell’ufficio del regional manager, cuore pulsante di The Office, piangendo – idealmente – come un bambino. Ha vissuto quell’improvvisa promozione quasi come una punizione, piuttosto che come una gigantesca occasione di carriera. Non voleva prendere decisioni, non voleva licenziare nessuno, non voleva comandare. Al punto che nei momenti peggiori lasciava parlare il crudo e imperturbabile Dwight Schrute, piuttosto che affrontare i propri dipendenti per dirgli che c’era qualcosa che non andava nel loro lavoro. Michael nel frattempo si nascondeva qua e là, sperando che quel terribile momento a cui un professore cattivo lo aveva costretto perchè si era comportato male, passasse il prima possibile.
Ma le cose cambiano, evolvono. E anche Michael Scott è cambiato e si è evoluto, nell’arco delle sette stagioni di The Office che lo hanno visto protagonista. Michael è cresciuto, soprattutto. Come capo ma anche e soprattutto come persona. Nelle prime scene abbiamo visto un bambino di 40 anni al timone di un gruppo che non lo amava e nemmeno lo rispettava, a dire il vero. Poco prima del suo addio, invece, abbiamo realizzato che davanti ai nostri occhi c’era un quasi 50enne ormai finalmente adulto, per quanto ancora caratterizzato da quei leggiadri connotati di infantilismo che ora però erano diventati solo vezzo extra, e non più unico tratto degno di nota del personaggio. Michael è diventato rassicurante.
Rassicurante per i suoi dipendenti, che nel frattempo sono diventati anche i suoi amici: all’inizio si auto-convinceva illusoriamente che un gruppo di persone che a malapena lo sopportava fosse formato da suoi amici, da persone che gli volevano bene: poi è successo davvero. Rassicurante per una sua dipendente in particolare che poi è diventata la sua fidanzata, anzi: l’amore della sua vita. Holly ha lasciato Michael la prima volta non tanto per la distanza, quanto perchè aveva davanti a se un uomo immaturo, insicuro, e che nonostante le forti connessioni tra i due non avrebbe mai potuto darle quel senso di stabilità che lei, pur nel suo fare scanzonato, cercava disperatamente. Quando è tornata, Holly ha trovato davanti a se un nuovo Michael: sicuro di quel che voleva, finalmente entrato nell’età adulta, finalmente consapevole. E non ha potuto fare a meno di innamorarsi follemente, e stavolta definitivamente, di lui. Ma Michael è diventato rassicurante soprattutto per se stesso: pur non perdendo la sua caratteristica identità fanciullesca ha cominciato a prendersi sul serio, e da quel momento in poi hanno cominciato a prenderlo sul serio tutti. Nella vita, nel lavoro, nell’amore.
Michael Scott non voleva fare il capo, in origine, ma poi ha cambiato idea. E non tanto perchè volesse fare carriera: come ha dimostrato, alla prima occasione la carriera l’ha buttata letteralmente nel cesso per inseguire il suo sogno principale, ovvero quello di farsi una famiglia con la donna dei suoi sogni. Michael ha cambiato idea durante il percorso di The Office per un presupposto più umano che professionale: non ha cambiato idea sul fatto di voler essere un capo nella vita, la cosa in fondo non gli è mai piaciuta granchè nonostante il suo dilagante narcisismo. Ma ha imparato a essere un grande capo per il bene che voleva ai suoi dipendenti: lo ha fatto per loro, più che per se stesso. Avrebbe fatto il capo solo e soltanto nell’ufficio di Scranton, e solo con quelle persone. Mai altrove, e mai per nessun altro.
Lo ha fatto per provare a guidarli verso un futuro migliore, pur nel suo modo totalmente sui generis ma stranamente funzionale: non è un caso che con Michael al timone, Scranton funzionasse a meraviglia e dopo l’addio di Michael, per trovare qualcuno che lo sostituisse adeguatamente ci sono voluti vari cambi della guardia.
Michael Scott è entrato nell’ufficio di Scranton piangendo come un bambino che era stato messo in punizione. Ma è andato via facendo piangere gli altri. Dallo straziante addio con Pam in aeroporto al tenerissimo rendez-vous con Jim, in un saluto-non saluto che atterra in un mondo ideale in cui i due non si separeranno mai, andando a pranzo il giorno dopo e poi chissà, anche quello dopo e quello dopo ancora per chissà quanto tempo. Passando per la corsa sfrenata e infantile di Dwight davanti all’ultima riunione chiamata dal grande capo di una vita, all’affetto smisurato riservatogli da chiunque altro. Michael Scott ha vinto una partita che inizialmente non voleva neanche giocare: ma a volte è bello provare, superare i propri limiti e scoprirsi fenomenali in cose in cui pensavamo di non essere minimamente all’altezza.