Avete presente quando pensate a una serie tv e immediatamente visualizzate il volto del suo protagonista, cioè colui (o colei) che sorregge l’intera vicenda? Succede ovviamente per quelle storie costruite su un’unica figura di rilievo, spesso monumentale e granitica, come Frank Underwood di House of Cards o Walter White di Breaking Bad. Non succede, invece, quando la serie viene concepita come un concerto di voci che cantano all’unisono. Le serie tv corali, come The Office, Friends, Skins o Il Trono di Spade, non si reggono solo sulla forza di un protagonista, ma su quella della moltitudine variegata e ben assortita dei suoi ruoli comprimari. È il lavoro di squadra a fare la differenza. Un equilibrio ben dosato che sfrutta le peculiarità di ciascun personaggio, il quale insieme agli altri rema al ritmo di un vogatore provetto. L’obiettivo è comune: tutto deve restare in piedi. Eppure non mancano esempi di serie corali che un protagonista ce l’hanno eccome, come quella sagoma buffa e grottesca di Michael Scott oppure in The Walking Dead dove, nonostante tutto, Rick è ancora il protagonista. Non mancano nemmeno quelle situazioni in cui un comprimario ha fagocitato l’attenzione del personaggio chiave. Come un aspirante pac-man in caccia di fantasmi. I ladri di scena sono tanti e insidiosi, da The Child (aka Baby Yoda) in The Mandalorian, Barney Stinson in How I Met Your Mother fino a Sheldon Cooper in The Big Bang Theory.
La mancanza di un protagonista unico però non determina sempre l’insuccesso della serie. Vediamo quei casi dove la sua assenza è stata meravigliosamente colmata da un gruppo solido di comprimari, cioè quei personaggi che, pur non essendo i protagonisti veri e propri, sono essenziali allo svolgimento dell’intreccio narrativo.
The Office 8 e 9: il disastro è “salvato”
Le prime sette stagioni di The Office US non sono propriamente delle stagioni corali. Come nell’originale The Office UK, così come David Brent, anche Michael Scott è il perno su cui ruota la narrazione. Un ingranaggio fondamentale che dà un senso all’esistenza degli altri. Nessuno, da Dwight Schrute, Jim Halpert a Pam Beesly, avrebbe avuto lo stesso significato senza l’irruenza fastidiosa di Michael. Perciò, quando Steve Carrell ha lasciato il mockumentary con un lungo e doloroso addio (07×22), tutti pensavamo che la sit-com non potesse sopravvivere senza la sua goliardia inopportuna. Invece, ancora una volta, abbiamo sottovalutato gli impiegati della Dunder Mifflin.
Come nota Jim durante l’assenza di Michael in un ordinario giorno di lavoro in una puntata delle prime stagioni: senza di lui intorno, si lavora decisamente meglio. Ogni dipendente ha il suo ruolo e tutti sanno cosa fare. Con l’addio del World’s Best Boss non è avvenuto il disastro tanto temuto, anzi: abbiamo assistito a un mezzo miracolo. Nessuno ha preso il suo posto e tutti si sono spalleggiati. Si sono uniti, hanno fatto squadra, come durante le Olimpiadi, e ci hanno regalato due dignitosissime stagioni. Michael Scott non se n’è mai andato via veramente e la sua presenza ha continuato ad aleggiare nell’edificio, nutrendo le gag con una nuova e originale linfa, figlia della nostalgia.
Happy Endings, Desperate Housewives e Stranger Things: l’unione fa la forza
Questi sono altri tre esempi di serie tv strutturate introno a una coralità di personaggi che non si sovrastano mai, ma si completano. Happy Endings è una sit-com divertente, ma sottovalutata, che racconta le vite disfunzionali di sei amici di Chicago. È impossibile pensare alla serie senza immaginarli tutti insieme: Jane, Alex, Dave, Max, Brad e Penny sono coinvolti in ogni puntata in una discutibile avventura personale che, in qualche modo, è sempre intrecciata a quella dell’altro. Indubbiamente ispirata a Friends, come accade nelle ultime stagioni di The Office, anche in Happy Endings nessuno primeggia e tutti si sostengono.
Ricordate il delicato equilibrio creato dalle protagoniste di Desperate Housewives? Cinque donne così diverse, cinque colori complementari che apparentemente sembrano poco abbinabili, ma che insieme danno vita a un quadro ricco di sfumature inaspettate. I caratteri di Susan Mayer, Lynette Scavo, Bree Van de Kamp e Gabrielle Solis sono così diversi che emergono con prepotenza dalla cornice finto-idilliaca di Wisteria Lane. Ognuna di loro aggiunge, ma non sottrae nulla all’altra. Tutto funziona e, nonostante i contrasti, il gruppo è coeso e rappresenta l’unico solo protagonista del comedy-drama creato da Marc Cherry.
Un altro esempio meraviglioso di serie tv corale dove l’unione fa la forza non poteva che essere una storia adolescenziale. Il successo di Stranger Things probabilmente sta tutto qua: un gruppo di amici (veri e affiatati) che si sostiene a vicenda, non senza contrasti. Il gruppo però non è statico e nel corso delle stagioni si espande per lasciare spazio a nuovi elementi. Non mancano le inevitabili diffidenze, certo, ma vengono superate permettendo ai ragazzi di intagliare un centimetro in più sulla colonnina della crescita. Nuovi volti, nuovi duo e nuova chimica, come Max e Eleven o Robin e Steve: delle combinazioni di colori che rendono la tavolozza della serie de I Duffer Brothers ancora più variopinta. È difficile individuare un unico protagonista perché ognuno di loro lo è a suo modo. Infatti senza la stessa conformazione, con ottime probabilità, gli effetti sarebbero stati diversi. Così come le due stagioni sprovviste della fastidiosa presenza di Michael Scott (ma pensiamo anche a La Casa de Papel o a Community) queste tre serie dimostrano che non sempre serve lasciare sulle spalle possenti di un unico protagonista tutto il peso della vicenda, come fa Francis Underwood. Infatti, dopo l’abbandono di Kevin Spacey, il castello di carte è crollato sonoramente sotto la sua assenza.
Non tutte le ciambelle riescono con il buco
Non possiamo dire lo stesso però di quelle serie tv ricche di personaggi che avrebbero dovuto avere un protagonista forte, come The Man in the High Castle, ma sfortunatamente si sono ritrovate con una Juliana Crain claudicante. Al suo posto, tutti gli altri. Da Frank Frink a John Smith, l’Obergruppenführer; da Helen Smith, Nobusuke Tagomi a Wyatt Price tutti i comprimari si sono fatti forza per rimpiazzare il vuoto lasciato dall’attrice Alexa Davalos la quale, a malincuore, non si è dimostrata all’altezza del ruolo. Le caratteristiche proprie di Juliana, come la forza e la risolutezza combattiva, sono assenti nella sua interpretazione che risulta, fin troppo spesso, fastidiosa e sfocata. Intorno a lei, fortunatamente, troviamo una rosa di attori e di attrici che hanno saputo dare un senso alla narrazione e hanno salvato la serie dal disastro.
Un altro esempio di un’assenza negativa è rappresentato da Nine Perfect Strangers, che il Guardian ha definito appunto “un perfetto disastro”. A prendere il posto della figura di raccordo destinata al personaggio di Nicole Kidman, sono arrivati nove diligenti soldatini (più due: Yao e Delilah) che hanno salvato la situazione. Insieme sono riusciti a ridare copro e vigore a una storia intrigante, ma resa zoppa da una protagonista incerta. La storia è stata arricchita con i contrasti e i drammi individuali degli ospiti e del team, primi fra tutti, due spumeggianti Melissa McCarthy e Bobby Cannavale. Contrariamente a quanto è avvenuto nell’ultimo The Office, sia nel mystery di David E. Kelley, sia nel drama basato sul romanzo di Philip K. Dick’s, il disastro è stato evitato, ma l’esito non ci ha convinto fino in fondo.
Un’altra serie tv che soffre della mancanza di un protagonista solido è Orange Is The New Black con la sua Piper Chapman. Il personaggio di Taylor Schilling, purtroppo, circondato da un cast di attrici grandiose, sgomita e non spicca, risultando così l’anello debole della vicenda. Questo non ha certo determinato il collasso della serie, ma è sicuramente una nota di demerito in un prodotto molto amato e ben costruito. Siamo certi, infatti, che se la comedy-drama spagnola, The Man in the High Castl e Nine Perfect Strangers non avessero avuto una rosa di comprimari così determinata a vogare insieme, la nave sarebbe colata irrimediabilmente a picco.
Il protagonista spesso fa la differenza tra una serie “wow” e una serie “meh”. Ma cosa succede quando è impossibile stabilire chi sia la figura principale?
Come abbiamo visto dopo l’uscita di scena del protagonista di The Office, il cambiamento ha determinato il passaggio da una serie incentrata su un mattatore, a una serie corale in piena regola. E l’esito è stato sorprendente. Al contrario, invece, in Community abbiamo assistito a un progressivo disastro. I personaggi principali erano tutti talmente tanto bilanciati che dopo i primi abbandoni, il crollo è stato vertiginoso. L’assenza di un protagonista forte non è sempre un male. Eppure tutto può funzionare solo quando il nucleo dei comprimari è forte. La bellezza in questi casi sta proprio nella danza coordinata dei personaggi che si spalleggiano e lavorano per un obiettivo comune.
Nel panorama seriale attuale nascono di anno in anno sempre più serie che sfruttano la coralità. Questo potrebbe dimostrare quanto amiamo quelle storie dove la responsabilità non è lasciata tutta nelle mani di un unico cavaliere errante, ma a un ensemble di personaggi comprimari che insieme si esaltano.
Insomma, l’unione fa la forza e spesso rappresenta anche l’elemento vincente di una serie, o una stagione, di successo.