C’era un’aria pesante a Scranton. La prima volta che ne avevo sentito parlare mi ero imbattuto in un improbabile videoclip rap anni ’90 di promozione territoriale che la descriveva come “the electric city”. Ci sarà stata pure l’elettricità, ma l’unica cosa che ricordo di Scranton Pennsylvania era la polvere. Bastava uscire da qualsiasi portone per poter fare a meno di pasta modellante per capelli o fondotinta. Quella dannata polvere era dappertutto – almeno due dita su ogni auto parcheggiata – e ho passato quei tre mesi con la congiuntivite allergica di cui credevo di aver rimosso ogni ricordo dalla pubertà. Mi ricordo la polvere, la congiuntivite e quell’annuncio per web editor nella sede locale di una società cartiera. A Scranton tutti la chiamavano banalmente The Office ma su internet c’era un inspiegabile hype e si parlava dappertutto della Dunder Mifflin Company. C’era online persino del merchandising dedicato con le magliette di un picnic aziendale del 2009 o altre che parlavano di orsi, barbabietole e Battlestar Galactica.
Forse fu più per curiosità che per necessità di cambiare lavoro che decisi di inviare una mail all’indirizzo di un certo Toby Flenderson, responsabile delle risorse umane in The Office. Mi sembrò fin da subito una persona cordiale e disponibile, eppure non riuscivo a capire per quale motivo continuasse a scrivermi se avevo mai sentito parlare dello strangolatore di Scranton. Ero da poco lì e mi sembrò una buona idea rispondergli che “no, ma vorrei saperne di più” per mostrare intraprendenza e voglia di vivere le questioni locali. Mi sbagliavo. Sono passati più di dieci anni e ancora oggi Toby mi invia mail allegando fascicoli di indagini e stralci di verbali giudiziari che neanche apro. Ho provato a bloccarlo, ma non c’è verso. Toby continua a creare account mail chiedendomi un parere che non so e non voglio dare. C***o se lo odio!
Fui chiamato a colloquio dopo una settimana dall’invio della candidatura. Non fu difficile trovare The Office. Era nella porzione di un blocco industriale di proprietà di un coltivatore di barbabietole locale che aveva anche una fattoria/bed & breakfast.
Il palazzone cubico era nella periferia di Scranton e ospitava varie attività, tra cui un’altra società di distribuzione cartiera, la Michael Scott Company, ma al mio arrivo trovai solo la Dunder Mifflin con annesso magazzino e il suo The Office. Parcheggiai la Prius del mio coinquilino di fianco a una trashissima Pontiac Trans Am Firebird, sporca di terra come se ci avessero arato i campi. Presi le mie cose e seguii le indicazioni per l’ingresso. Una guardia di colore dietro il bancone di una piccola area relax mi guardò distrattamente alzando gli occhi da una rivista di gossip solo per indicarmi con le pupille dove prendere l’ascensore. Avrei potuto essere lo strangolatore di Toby e entrare negli uffici della società senza che nessuno battesse ciglio. E invece ero solo un web editor in cerca di uno stage per poter iniziare a farmi conoscere nella electric city.
Entrando all’interno dell’ufficio regnava un silenzio tombale rotto solo dagli squilli dei telefoni ai quali nessuno rispondeva. Una troupe televisiva mi fermò appena davanti la porta di The Office e mi montò un microfono sulla giacca dicendomi di non fare domande e di non guardare mai negli obiettivi delle telecamere. Non capii perché ma non ebbi il tempo di fare domande perché mi diedero una sorta di ciak dopo pochi secondi e mi spinsero davanti la reception.
Quando entrai nel campo visivo della receptionist i suoi occhi ebbero un sussulto di terrore e delusione e cercò di farmi capire che non avrei dovuto parlare. Io non capii, così sussurrai un timido “Buongiorno, sono… “. Non l’avessi mai fatto! L’intero ufficio ruppe il silenzio per inveirmi contro come se avessi schiaffeggiato qualcuno! La receptionist richiamò con lo sguardo un tipo alto che mi si avvicinò sorridente e si presentò guardando l’orologio: “Piacere, Jim. Benvenuto in The Office. Non fare caso agli altri. Hai solo interrotto un silenzio che durava da 19 minuti e 59 secondi. Poteva essere un record ma… (sospirando) non fa nulla, ci riproveremo domani. Sei uno degli aspiranti stagisti, giusto? Puoi accomodarti in sala conferenze, proprio dietro quella porta. Toby ti ha già avvisato dell’esame psicoattitudinale?” – “Sì, mi ha parlato di un test ma…” – “Bene, bene. Vado a chiamarlo e cerco di capire dov’è Michael così facciamo due chiacchiere e ti spiego”.
La ragazza alla reception si scambiò uno sguardo di intesa con Jim che si allontanava, poi mi guardò sorridente e si presentò: “Ciao, io sono Pam. Sei l’unico oggi. Ti accompagno nella conference room e ti lascio dei moduli da compilare”. Pam aveva un’aria triste ma gentile e posata. L’ufficio era un open space piuttosto piccolo e il materiale umano alle scrivanie prometteva malissimo. Passai davanti a un impiegato con la fronte spaziosa e una camicia a maniche corte gialla sotto un’orrenda cravatta marrone, che mi degnò solo di un’occhiataccia di traverso dietro un paio di occhiali fuori moda già vent’anni fa.
Mi accomodai nella sala conferenze. Sulle pareti stampe a colori di Tom Hanks in Forrest Gump e Big. Pochi minuti dopo entrò un tizio corpulento che iniziò a fissarmi intensamente.
Era altissimo, con gli occhi piccoli e l’aria interrogativa di chi è sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato. Mi fissò un paio di minuti prima di dirmi “Oggi compleanno Kevin, oh yeah! Io, Kevin, tu?”. Era chiaramente uno degli impiegati ma palesava quell’ingenuità infantile e genuina che tiene su il morale delle comitive quando il mood va giù. O forse partecipava a qualche programma della Dunder Mifflin per l’inserimento sociale di persone speciali… A ogni modo provai a spiegargli a monosillabi che ero lì per il colloquio da stagista in The Office ma sembrava che non mi stesse ascoltando mentre gli occhi puntavano a un angolino della sala dove c’era un carrello da catering coperto da una tovaglia. Il sorriso beffardo di Kevin che preludeva alla marachella fu interrotto dalla voce stentorea di un uomo apparentemente molto curato, ben vestito ma con la giacca di almeno una taglia più grande. Entrò spostando quella montagna umana di Kevin e mi venne subito a stringere la mano.
“Benvenuto alla Dunder Mifflin Company! Sono Michael Scott (dove avevo già sentito quel nome… ah già, l’altra compagnia dello stabile) manager in The Office, ma puoi chiamarmi anche Agente Scarn o semplicemente Dio, Supremo Signore della Gnagnagnagngna!”. Non avrei saputo dire se era più volgare, infantile o scemo ma qualcosa mi diceva che era incredibilmente il più alto in grado lì dentro, così mi misi in modalità professionale raccogliendo le provocazioni informali solo con un sorriso discreto (per non dire imbarazzato). “Sono qui per il colloquio da stagista”, dissi prima ancora che finisse quella lunga stretta di mano, “il signor Flenderson mi aveva accennato a un piccolo test scritto, ma devo confessarle che anche all’università me la sono sempre cavata molto meglio con l’orale”.
“That’s what she said!” – “Prego?” – “È quello che ha detto!” – “Chi?” – “Lei!” – “Io?” – “No! No no no no no NOOO! Non tu! Lei! Dannazione! Come fai a non capirla?”.
Capii di aver capito troppo tardi e il disappunto di Michael Scott non lasciava presagire che sarebbe stato il migliore dei miei colloqui lavorativi. Provai a recuperare e scoppiai a ridere. In ritardo e fragorosamente. Michael approvò con una pacca sulla spalla e le sue risate dietro le mie mi rimisero in carreggiata. Per fortuna la nostra breve presentazione fu interrotta dall’ingresso in sala conferenze di Jim, Pam e un impiegato biondo slavato con l’espressione da basset hound bastonato. Era Toby Flenderson, esattamente come l’avevo immaginato dopo i suoi deliri via mail. “Ok, siamo pronti e ci siamo tutti”, disse Michael invitandomi a sedere. I quattro restarono in piedi di fronte alle sedie vuote alle mie spalle e me solo in prima fila. Toby mi si avvicinò, mi salutò presentandosi e mi consegnò un foglio con delle domande a risposte multipla. Avvicinandosi mi sussurrò che c’erano delle novità sulle indagini e che ne avremmo parlato a fine colloquio in area relax. Cavolo se suonava come una minaccia, ma non era il momento di fare gli schizzinosi davanti al team di The Office e mi limitai ad annuire.
Buttai un occhio alle domande sul test ma non c’era nulla su editing, competenze o robe motivazionali. Ogni domanda aveva solo tre possibilità di risposta ma non feci in tempo a leggerne nessuna perché Jim richiamò la mia attenzione.
“Ok, Toby ti aveva avvisato del test. Ecco, oggi non sei qui per un colloquio vero e proprio. O meglio, una chiacchierata la faremo senz’altro ma abbiamo bisogno di te per un primo importante task segreto e di estrema importanza”. Toby scosse impercettibilmente la testa mentre Michael annuì serioso grattandosi il mento con due dita e rubò la parola a Jim: “Più che di un nuovo impiegato avevamo bisogno di qualcuno che non fosse di Scranton e che non conoscesse The Office. Toby è stato incaricato di individuare quale fosse il miglior candidato per questo compito e il tuo profilo è stato selezionato dalla Dunder Mifflin Company tra innumerevoli candidature…”. Lo interruppe la voce tremolante di Toby “Ma Michael, ne abbiamo avute solo tre…” – “Aaaaaaaaaaaahhhh! Quand’è che la smetterai Toby? Che ci fai ancora qui? Non avevi un appuntamento con il divorzista per gli alimenti?”. Probabilmente Toby aveva davvero quell’appuntamento perché incassò in silenzio uscendo dalla sala conferenze tra borbottii soliloquiali di accordi prematrimoniali.
“Oggi hai un primo importantissimo compito… a proposito, come hai detto che ti chiami? Anzi no, non dircelo. Ti chiameremo Alvo perché ci sembri un tipo regolare”. Michael rise sguaiatamente mentre lo sguardo di Jim incrociò basito l’obiettivo del cameraman. Si vede che lui poteva. Io sorrisi ma ero sempre più perplesso. Pam prese la parola indicandomi il test: “Ok, non leggere le domande ma ti anticipo che il test non ha nulla a che vedere con le risorse umane. È un’idea di Michael per prevedere la compatibilità dei candidati con questo particolare ambiente di lavoro”. Pam stringeva tra le braccia alcuni fogli e in mano un cronometro pronto a partire. “Appena ti darò il via faremo entrare alcuni colleghi, uno per volta. Senza dirci nulla dovrai semplicemente provare a rispondere alle domande. Ci tengo a sottolineare e ribadire che il test è stato scritto e voluto esclusivamente dal nostro manager, Michael Scott”. Michael sorrise fieramente e rubò frettolosamente la parola a Pam: “Ok, bando alle ciance! Pronto Alvo? Via!”.
Entrò una donna rossiccia di mezza età, con gli occhi color ghiaccio. Non era brutta, solo vagamente trasandata ma non molto più degli altri impiegati in The Office.
Entrando nell’ufficio avrei giurato di averla vista giocare a freecell qualche minuto prima, ma magari mi sbagliavo. Mi sfilò di fianco provocante, ammiccando abbastanza da farmi sentire la tequila della sera prima. Mi indicò la prima domanda e ci buttai un occhio: “Di che colore sono le mutande di Meredith? – 1) bianche – 2) rosse – 3) non le ha”. Sorrisi imbarazzato e cercai lo sguardo di Jim in cerca di aiuto ma mi rispose spallucce. Michael al contrario non sembrò convinto e si avvicinò al mio test per controllare: “Non c’era questa domanda sul test! È falsato! Chi ha modificato la prima domanda?”. A quel punto la signora balzò all’indietro alzandosi la gonna vittoriosa e mostrando alle telecamere il dito medio per scappare via nel gelo della sala conferenze. Michael riprese: “Ok, questa era facile. Rispondila lo stesso così non falsiamo il test. A meno che non ci sia il color carne macerata possiamo essere tutti d’accordo che la risposta corretta è stata sotto gli occhi di tutti anche per troppo tempo”.
Immediatamente dopo fece capolino dalla porta un messicano curato e ben vestito: “Michael, mi hai cercato?”.
Ma Michael non gli diede assolutamente retta, mi guardò sornione e mi invitò a rispondere alla seconda domanda: “Oscar è: 1) gay – 2) non gay – 3) nessuna delle precedenti”. Sembrava un tipo a posto, per questo mi rifiutai di rispondere. Saranno stati pure fatti suoi che diamine! Ma Michael non la prese benissimo: “Come fai a non rispondere? Far finta di nulla è un atteggiamento sessista! In questo ufficio nessuno mette Oscar Martinez in un angolo”. E mentre lo diceva si avvicinò all’impiegato per baciarlo sulla bocca. “Vedi? In The Office non ci facciamo problemi e baciamo gli omosessuali come se fossero persone normali”. Mentre la bocca a cuoricino di Michael si avvicinava, Oscar schivò il manager e i suoi occhi chiusi a metà come a voler appurare discretamente di star mancando il bersaglio. Non riuscivo ancora a capire il motivo di quella follia e il perché dovessi stare al gioco, ma il bislacco tentativo di Michael Scott di essere politically correct mi faceva ridere. Buttai giù la crocetta su “gay” e feci cenno che si poteva proseguire.
Oscar era appena uscito, Jim sussurrava sorridente qualcosa nell’orecchio di Pam che annuiva e sorrideva a sua volta, Michael buttò un’occhiata all’orologio e io ne approfittai per leggere la domanda successiva. Era scritta a penna tra due domande, non aveva risposte multiple e diceva solo: “Ora entrerà Dwight K. Schrute, appena entra stai al gioco. Jim”.
Il tizio occhialuto in giallo e marrone che mi aveva squadrato in cagnesco all’ingresso in The Office entrò leggendo un fax e cercando preoccupato Jim.
“Sto continuando a ricevere quei fax da me stesso nel futuro”, sussurrò tirandoselo minaccioso a sé, “direi che possiamo anche smetterla con questa pantomima, Jiiiim. Non fa più ridere. Chi stai pagando alla Dunder Mifflin per farmi mandare ancora fax? Questo poi, dice che oggi avrei ricevuto una visita da mio figlio. Che idiota! Io non ho figli”. Ma Jim non si scompose, lo zittì e approfittò del fatto che Michael aveva lasciato la sala conferenze per portare me e Dwight ai distributori automatici in area relax. Jim era una maschera di serietà impressionante, mi guardò, poi guardò Dwight e disse: “Dwight, non sono io a farti mandare fax. Almeno non più. Due secondi prima che entrassi questo ragazzo stava provando a convincerci di una cosa folle a cui nessuno voleva credere. Ma poi sei entrato tu e hai portato questo fax. È follia Dwight, ma così incredibile che potrebbe essere vero”. Jim mi guardò e mi disse serissimo: “Diglielo tu, magari a te crederà”. Non sapevo cosa sarebbe successo ma ormai il colloquio aveva preso una piega assurda e mi sembrò opportuno reggere lo scherzo con tutta la teatralità richiesta: “Dwight K. Schrute, so bene che venirti a cercare in questa dimensione temporale potrebbe piegare il piano astrale e creare paradossi che distruggerebbero la razza umana del mio tempo, ma dovevo. Sono tornato indietro per avvisarti che nel 2030 un’invasione aliena raderà al suolo Scranton e tu finirai ucciso da un blaster sonico durante una battaglia campale in The Office. Questo è tutto quello che mi ha detto la mamma di cui non posso farti il nome. Rischierei di non nascere. Bisogna essere pronti all’invasione e costruire un rifugio antiatomico quanto prima. Potrebbe essere l’unico modo per salvarti la vita e far sì che ti possa conoscere nel mio tempo, papà”.
Jim mi guardò con la fierezza di chi mi avrebbe assunto all’istante se avesse potuto. Io non mi scomposi – anzi – riuscii a farmi uscire una mezza lacrima mentre gli occhi di Dwight luccicavano dietro le lenti. Avrebbe voluto chiedermi di tutto ma avevo costruito una storia così inattaccabile – seppur incredibile – che si limitò ad abbracciarmi e bagnarmi l’unica camicia decente che mi ero portato dall’Italia. Jim sorrise a Pam che ci spiava da dietro le veneziane dell’area relax. Ma io non sapevo come ne sarei potuto uscire. Ci volle un ingresso di Michael per staccarmi Dwight di dosso: “Bene! Tutti pronti per la festa di compleanno di Kevin? Il comitato di The Office aveva detto alle 11, possibile che ancora non ci siano i palloncini?”.
“Comitato, festa? Ma dove diavolo sono finito? E perché la troupe televisiva?“. Pensai e fissai Jim come a dirgli “e adesso?”. Lui mi prese in disparte, mi portò da Pam che mi guardò intensamente e mi disse: “E adesso… c’è da firmare la liberatoria per le riprese“.
Non capii, le labbra di Pam andavano sempre più a rallentatore e quasi non riuscivo a seguirle. “Se non vuoi, non fa nulla. E poi si è fatto tardi, vai a casa”. Cercai di mettere a fuoco Pam ma non ci riuscivo più. Mi sentii stanco, assonnato, mi misi a sedere sul pavimento e chiusi gli occhi. “È tardi, vai a casa Graffa”. Riaprii gli occhi e mi ritrovai in redazione tra Vincenzo Galdieri e Antonio Casu che si palleggiavano la stessa battuta. Qui a Hall of Series si tira tardi e devo essere crollato sulla tastiera mentre gli altri erano al lavoro sulle ultime uscite. Io invece mi sono preso l’ennesima recensione di The Office US e ancora non so cosa si potrebbe scrivere di Scranton che non sia stato già scritto (altri articoli su The Office qui). Avevo una mezza idea su un finto colloquio da stagista alla Dunder Mifflin ma ho come l’impressione che qualcuno abbia già fatto un pezzo del genere. E comunque ho scritto troppo. Questo mi pare un po’ troppo lungo... that’s what she said!