9 anni di televisione sono tanti. Soprattutto se questi 9 anni iniziano nel 2005 che ormai, inutile negarlo, è davvero tanto tempo fa. La sfida di un’opera, almeno sul piano temporale, è anche quella di lasciare ciò che gli anglofoni chiamano una “legacy“. Quanto si è in grado di resistere all’inesorabile prova del tempo? The Office raccoglie le proprie armi e sfodera un capolavoro lungo quasi un decennio.
Dwight: “I can’t believe you came“
Michael: “That’s what she said“
Jim: “Best. Prank. Ever.“
The Office è innanzitutto una serie sulle persone. Di ogni tipo. E spesso proprio il luogo di lavoro altro non è che l’ambiente perfetto per osservare innumerevoli tipologie di “fauna umana”.
Dall’idea di quei geni di Ricky Gervais e Stephen Merchant (autori, non a caso, dell’edizione ‘originale’ UK della serie) e con l’adattamento di Greg Daniels, nasce un progetto che non vuole sottostare a gran parte delle regole che imperversano nel mondo delle comedy-sitcom, ma anzi decide di dare priorità assoluta ai numerosi patti silenziosi e sottintesi che stipula con lo spettatore.
Il genere del cosiddetto mockumentary, con la presenza di una troupe intenta a girare un documentario (nella serie sì, vero) sulla vita d’ufficio della azienda Dunder-Mifflin, permette a The Office e ai suoi protagonisti di accedere a un piano meta-narrativo ricco di possibilità: su tutte, la (finta) rottura della quarta parete con costanti sguardi in camera (indimenticabili quelli di Jim Halpert/John Krasinski), le interviste singole negli angoli dell’ufficio e ogni elemento che in generale permette allo spettatore di essere costantemente onnisciente (o quasi), con i conseguenti risvolti comici o, per meglio dire, tragicomici del caso.
Ma come già detto, il fulcro esistenziale-narrativo di una delle comedy migliori di sempre è legato inevitabilmente ai suoi protagonisti. Non si può, per cogliere l’essenza di The Office, non partire dunque da Michael Scott/Steve Carell.
Michael è il regional manager della filiale di Scranton dell’azienda distributrice di carta Dunder-Mufflin, e possiede contemporaneamente tutti i difetti necessari per odiarlo e ogni genere di pregio imprescindibile per amarlo. Fondamentalmente il protagonista della serie è una persona buona, con spiccate tracce di infantilismo e innumerevoli problemi non risolti dall’infanzia. Il vero problema di Michael (che lo rende, per questo, il principale portatore della comicità cringe di The Office) è che non ha minimamente consapevolezza di se stesso, ed è dunque costantemente e inesorabilmente inadeguato.
Questo aspetto, in un luogo di lavoro noioso come quello rappresentato, non fa altro che peggiorare le cose per chi lo vive e renderle esilaranti per noi spettatori. Prendiamo ad esempio questo dialogo in cui Michael tenta di convincere prima Jim e poi Pam ad andare a pranzo con lui:
Michael: “Jim?“
Jim: “No thanks, I’m good“
Michael: “That’s what she said. Pam?“
Pam: “Uh, my mother is coming“
Michael: “That’s what she..uh, no“.
Michael è, di fatto, un inconsapevole sessista, omofobo e a suo modo anche classista, ma non ha la minima idea di esserlo. Anzi, se qualcuno gli spiegasse il significato di queste parole e le collegasse ai suoi comportamenti, si sentirebbe in colpa per sempre e passerebbe il giorno a cercare di farsi perdonare. Michael, nelle sette stagioni in cui è protagonista (nelle ultime due, infatti, il personaggio di Steve Carell non c’è, tranne come guest nel series finale) è l’eroe di quel concetto di tragicomicità a cui si accennava prima. Il manager della Dunder-Mifflin di Scranton è convinto di avere qualità che non ha, ma probabilmente è inconsapevole di quelle che in realtà possiede.
Michael Scott è un buono.
Il suo arco narrativo, praticamente perfetto, descrive accuratamente tutto il disagio esistenziale che non sa di vivere, quello che provoca negli altri e, alla fine, la grande pace che trova nel più bell’amore corrisposto che potesse sognare, quello con Holly. Nelle caratteristiche che delineano la sua assurdità, il personaggio di Michael in realtà rappresenta completamente il fil rouge di The Office: l’improbabilità surreale delle situazioni e delle personalità che si incontrano in ufficio da un lato, e l’assoluto realismo rappresentativo di una realtà, quella lavorativa, in cui veramente ci si può imbattere in persone e vicende di ogni genere, con tutta la noia, la ripetitività e le scappatoie conseguenti dall’altro.
In questo senso, Dwight Schrute/Rainn Wilson è una figura estremamente ambivalente nel delicato equilibrio dell’ufficio di Scranton. Da un certo punto di vista, incarna numerosi stereotipi del bifolco americano: fermamente convinto del libero utilizzo delle armi, complottista, credulone. Da un punto di vista comico, questo aspetto funziona alla perfezione, rendendolo il perfetto bersaglio dei divertentissimi scherzi di Jim durante tutte le stagioni. Ma anche e soprattutto da un lato narrativo Dwight è quell’ingranaggio che permette sia alla storia di proseguire “attraverso” di lui, sia di farlo “grazie” a lui.
In poche parole, a modesto parere dello scrivente, Dwight è il vero eroe di The Office.
La sua ricerca del potere, che a lungo si inserisce nel topos comico dell’oggetto irraggiungibile del desiderio dell’eroe, trova conforto nel finale, quando il suo arco, la sua quest, si conclude diventando finalmente manager. Questo avviene, inoltre, in concomitanza con il finalmente esplicitato lato più tenero di Dwight: quello che lo vede dichiararsi e unirsi alla donna che, nonostante tutto, ama.
Potrebbe sembrare strano dirlo ma in una serie divertente (e decisamente non romantica o sentimentale) come The Office è proprio l’amore uno dei motori principali. Come non pensare, quindi, all’amore più simbolico dello show, quello tra Jim e Pam? Una relazione chiara come il Sole fin dalla puntata 1×01 a tutti tranne che a Pam Beesly/Jenna Fisher, che trova una sua realizzazione solo a partire dalla quarta stagione. Attraversa periodi fantastici ma al tempo stesso si presta alla drammatizzazione della nona stagione, in cui viene di fatto mostrato che niente è perfetto e anche (o forse soprattutto) chi si ama è destinato ad affrontare i problemi della vita quotidiana e non.
Jim, in questo senso, è probabilmente il personaggio più amato della serie, vista la sua capacità di vivere insieme agli spettatori il cringe della maggior parte delle scene o al più di esserne vittima, mostrando il suo disagio con gli eloquenti e già citati sguardi in macchina. Ci diverte e soprattutto non è ai più inaccessibile perché, sotto la sua corazza di “good looking, cool guy“, è in realtà, come lo definisce Pam, senza dubbio “goofy“, a modo suo anche un po’ “sfigato”, nel senso più buono e tenero del termine.
The Office non è una serie perfetta. È innegabile, ad esempio, che il prezzo pagato con la partenza del personaggio di Michael sia stato alto. Tuttavia, la nave non è affondata, perché gli autori sono riusciti a evidenziare maggiormente quegli aspetti dello show che erano già funzionanti e funzionali (il rapporto Dwight-Jim, il triangolo Oscar-Angela-Senatore, l’ingenua stupidità di Kevin, l’incapacità di vivere di Andy) ma in leggero secondo piano rispetto alle disavventure di Michael. Il punto è che funziona in maniera impeccabile fino alla settima stagione, e nelle ultime due funziona comunque. Forse un po’ meno divertente, forse un po’ meno challenging, ma funziona.
Non è un caso che The Office, a ben 7 anni dalla sua conclusione, sia stata la serie più vista nelle piattaforme streaming dell’intero 2020. Per molti è stata una vecchia conoscenza, per altri (come per me) una incredibile nuova scoperta, una compagna insostituibile in questi tempi tristi e bui.
The Office riesce a far ridere, a far emozionare, a far sognare. Ci fa capire quanto pessimo possa essere un posto di lavoro, ma anche quanto incredibile puoi renderlo insieme alle persone con cui lo condividi, anche per solo istinto di sopravvivenza. Come direbbe Michael, “more than a friend… a co-worker“.
And tomorrow I can tell you what a great boss you turned out to be. Best boss I’ve ever had.
Leggi anche: The Office – E se il protagonista fosse Dwight Schrute?