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Quando ho visto le prime immagini della nuova serie medical drama The Pitt ho avuto un déjà vu. E poi un tuffo al cuore. Noah Wyle con lo stetoscopio al collo e il camice da medico mi ha fatto immediatamente pensare “ecco qui il Dr. Carter, certamente molto più adulto di trent’anni fa, ma è lui. Stesse espressioni, stesso carisma. È proprio lui”. Poco dopo però ho realizzato che E.R. si è conclusa da un po’ di tempo, che gli ambienti dell’ospedale apparsi in quelle prime sequenze non coincidevano con quelli del Policlinico Universitario di Chicago. Inoltre i volti dei dottori intorno al protagonista non mi erano familiari.
Il déjà vu iniziale venne quindi sostituito da un senso di straniamento e da una domanda spontanea: era davvero necessario uno show in cui l’attore interpreta ancora una volta un medico di pronto soccorso? Il suo personaggio in E.R. era stato scritto talmente bene che il suo percorso e il conseguente epilogo erano stati perfetti così. Il suo ruolo in The Pitt sembrava invece alterare l’immagine del Dr. Carter a cui tutti siamo smisuratamente affezionati ancora oggi.
Successivamente a queste prime considerazioni, tuttavia, ho deciso di concentrarmi sul contenuto della serie, sulla trama e sulla messa in scena, cercando di trovare le differenze positive più che le analogie con il prodotto anni ’90. La buona riuscita di un progetto, infatti, dovrebbe coincidere con la capacità di sapersi discostare da quanto fatto in precedenza, portando con sé una nuova rappresentazione e un punto di vista inedito e innovativo. Più che imitare dovrebbe quindi rielaborare.

Ma proviamo ad andare con ordine. The Pitt (diminutivo di Pittsburgh Trauma Medical Hospital, dove hanno luogo le vicende) è una serie composta da 15 episodi disponibili su Max. Il protagonista nonché responsabile del reparto di medicina d’urgenza, come abbiamo accennato, è il nostro ex Dr. Carter qui nei panni del Dr. Michael “Robby” Robinavitch, rientrato al lavoro dopo una lunga assenza dovuta allo stress e ai traumi subiti durante la pandemia di Covid-19. Potremmo quindi considerare questa caratteristica alla base del suo personaggio come un timido elemento di originalità.
L’ultima stagione di E.R. infatti andò in onda nel 2009 durante anni movimentati per altre cause, prima fra tutte l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Tanto terrore nel viaggiare, nel visitare alcuni luoghi culturali, nel prendere i mezzi pubblici. Tanta diffidenza e pregiudizio nei confronti di alcune etnie. Ma niente lockdown, niente isolamento, niente turni extra con il solito stipendio da fame.
Il Dr. Robby, pantaloni larghi con tante tasche e cuffie sulle orecchie, ci introduce alla prima puntata dello show, la cui storia ha inizio alle 7.00 in punto del mattino, lo stesso orario in cui incomincia anche il turno del dottore. La scelta di mostrare allo spettatore un’ora sola di ogni rotazione è anch’essa una piccola rivoluzione, perché con questo espediente il medical diventa a tutti gli effetti un dramma in tempo reale. Sbirciamo la vita pulsante di un pronto soccorso per 60 minuti e quando arrivano le 8.00 cala il sipario. Inoltre non ci sono musiche di accompagnamento agli eventi più adrenalinici, ma solo i suoni e i rumori di un qualsiasi ospedale. I bip dei monitor, il vociare dei pazienti in sala d’attesa, le ruote cigolanti di una barella, il pianto di qualche parente.

Siamo però proprio sicuri che un’idea del genere non era già stata fatta da qualcun altro in precedenza? Ad esempio (citando una serie a caso) da E.R. Medici in prima linea? La risposta naturalmente è sì. Il primo episodio della quarta stagione (era il 1998) intitolato Diritto di immagine, venne interamente girato dal vivo con i cameramen della NBC che fingevano di essere dei documentaristi all’interno dell’ospedale. C’era George Clooney (Dr. Ross) più scanzonato che mai mentre alcuni medici e infermieri subivano la soggezione e l’imbarazzo di venire ripresi continuamente da degli estranei.
Arrivati a questo punto, però, dobbiamo fare una precisazione e spezzare una lancia a favore di The Pitt. Dal momento che E.R. è considerata meritatamente la madre di tutti i medical drama, è anche abbastanza scontato trovare riferimenti, citazioni e spunti continui nelle serie tv dello stesso genere televisivo seguite al cult anni ’90. È naturale e istintivo farsi influenzare dai capostipiti che rappresentano l’avanguardia del piccolo schermo. Basti pensare a Twin Peaks per rimanere tra i prodotti della tv di qualità, e a tutti i suoi figli e nipoti.
Il problema di The Pitt quindi non risiede nella struttura, nel genere o nello svolgimento della narrazione, quanto nell’aver voluto ricreare una magia – un effetto nostalgia – che però è oramai anacronistico. Superato. Fuori tempo massimo. Non basta mettere davanti agli occhi degli spettatori il volto di Noah Wyle per soddisfare le alte aspettative del pubblico e dei fan. Ovviamente non è una critica all’attore e alla sua indiscussa professionalità. Un artista talmente abituato a calarsi nella parte di medico da averci convinto che lo è davvero. Non riusciamo quasi a scindere Noah da John Carter e ora da Michael Robinavitch. È nato per questo ruolo, c’è poco da fare.
Il carisma del veterano di E.R., però, in The Pitt diventa un’arma a doppio taglio perché dei suoi colleghi ricordiamo poco, anche se la scrittura delle loro personalità è stata ben definita. E questa è un’altra differenza tra i due show. Il punto di forza di E.R. risiedeva proprio nella sua coralità, nell’impossibilità di individuare un protagonista al di sopra delle parti. Ognuno dei personaggi apportava qualcosa agli altri (un esempio virtuoso è il Dr. Greene), sia sul luogo di lavoro che nelle vicende private. Nello serie distribuita da Max, invece, il Dr. Robby sembra oscurare tutti gli altri. Un azzardo preso dagli ideatori di Dr. House, ad esempio, riscontrando un enorme successo.

Ma avete notato come torniamo sempre a parlare del protagonista di The Pitt? È un bene? È un male? Dipende. Ognuno di noi cerca un appagamento soggettivo da una serie tv o da un film, quindi entrambe le strade percorse dagli sceneggiatori possono essere considerate valide. Non è certo nostra intenzione stabilire dogmaticamente quali debbano essere i gusti di voi lettori. Anzi, sicuramente tra coloro che stanno leggendo queste righe ci sarà qualcuno che ha apprezzato The Pitt e non vede l’ora dell’uscita della seconda stagione. E sì, perché mentre stiamo scrivendo questo articolo, la serie è già stata ufficialmente rinnovata. Ci saranno colpi di scena? I personaggi secondari verranno maggiormente sviluppati? Verrà approfondito il passato del Dr. Robby? Cosa ci rimane di questo primo assaggio visto nei 15 episodi?
Una certezza sopra ogni altra: tutti i medical drama sono eredi di E.R. e nessun medical drama è erede di E.R. Lo si prende, lo si spiegazza, lo si taglia e lo si ricuce. Una piccola modifica qui, una toppa là, guardando sia avanti che indietro. Per ricordarsi che quello di eguagliare o superare l’opera dell’artefice originario è un duro lavoro, ma qualcuno deve pur farlo. E Noah Wyle ci ha provato, insieme a John Wells e R. Scott Gemmill, ex produttori di E.R. e attuali ideatori e produttori di The Pitt. La mente creativa è la stessa, quindi, ma il risultato finale potremo valutarlo solo col tempo.