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The Prisoner: la Serie Tv che non sapevamo di conoscere già

The Prisoner
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Quando The Prisoner vide la luce, nel lontano 1967, la televisione non aveva il rilievo che ha oggi. E le Serie Tv non vivevano l’epoca d’oro che sembrano attraversare nei nostri giorni. Eppure da quel piccolo schermo, il primo ottobre 1967, nacque un cult.

Involontariamente ognuno di noi sarà entrato in contatto con The Prisoner: i Simpson ne dedicarono un intero episodio (il 12×06); gli Iron Maiden una canzone (The Prisoner, dall’album The Number of the Beast); i Muse se ne dichiarano espliciti fan e in molti concerti distribuiscono palloni aerostatici, omaggio al Rover della Serie; lo stesso Rover è presente nel video della canzone Fuori dal tunnel composta da Caparezza; in The Truman Show è inserita una riproduzione del famoso negozio del Villaggio. Ma i riferimenti non si esauriscono qui: da Battlestar Galactica ai Coldplay, da Lost ai Death In June l’occulta presenza di The Prisoner ha accompagnato le nostre inconsapevoli vite.

The Prisoner

Ma andiamo con ordine, riavvolgiamo il nastro. Ripartiamo da quell’ottobre 1967. Patrick McGoohan è un attore statunitense ormai maturo: ha fatto teatro (definito “grandioso” da O. Wells nella parte di Starbuck nella messa in scena di Moby Dick). Ha lavorato al fianco di Sean Connery in I piloti dell’inferno. La recitazione nella parte dell’agente segreto John Drake in Danger Man gli è valsa la proposta per il ruolo di James Bond nel primo capitolo della serie (Agente 007 – Licenza di uccidere). McGoohan rifiuta. Non si pentirà mai di questa scelta.

James Bond per McGoohan rappresenta tutto ciò che non accetterà mai nel cinema e il motivo che lo porterà a esser relegato a ruoli televisivi: sentimentalismo spicciolo, violenza esagerata, sesso e tecnologia.

Di contro, nell’accettare il ruolo di John Drake McGoohan impone, con scandalo della produzione, che al centro della scena vi sia un uomo realistico, semplice ma brillante capace di affermarsi con la sola forza della sua arguzia. Si gettano qui le basi per la successiva produzione di The Prisoner.

Dallo Sean Connery versione 007 prese in prestito comunque ciò che di meglio potè: “Un estetismo delle immagini, una punta di dandysmo, una preziosità dell’orrido” come ebbe a dire Guido Piovene. In cuor suo in quegli anni McGoohan aveva già meditato la produzione di una miniserie che avrebbe portato per la prima volta la definizione di cult a essere associata al piccolo schermo.

Tutto nasce da un whodunit tipico del giallo deduttivo: Who is Number 1?

Il Prigioniero, di cui non sapremo mai –significativamente- il nome, è un agente governativo britannico che ha rassegnato le sue dimissioni. Nella sequenza d’apertura di ogni episodio lo vediamo discutere col suo superiore, gettare sul tavolo una lettera, tornare a casa pronto a fare le valigie e finire narcotizzato da un gas introdotto dal buco della serratura. Il luogo in cui si risveglia è il Villaggio, una località segreta in cui sono trattenuti individui in possesso di dati sensibili. Da questo momento in poi i capi del Villaggio cercheranno in tutti i modi di strappargli una confessione sulle reali motivazioni delle sue dimissioni.

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Fin qui niente di straordinario. Già, ma ritorniamo alla tag-line iniziale: Who is number One? Nel Villaggio tutti sono espropriati dell’identità. Nessuno ha un nome ma è definito da un numero identificativo. Il Prigioniero, interpretato dallo stesso McGoohan, è il Numero 6. Fin da subito appare evidente la sua reticenza nell’accettare di essere “comandato, archiviato, istruito, interrogato. In breve: non mi piace essere un numero. La mia vita è solo mia!”.

Nel dialogo con il Numero 2 che accompagna la sequenza iniziale prorompe in una frase che diverrà storia:

Io non sono un numero, sono un uomo libero!

Sarà questa la costante nel corso degli episodi: la sua inflessibile volontà di mantenere la propria dignità di essere umano, di individuo cosciente e dal pensiero indipendente.

L’obiettivo dei capi sarà invece quello di piegarlo, più che con la forza, nella mente, così da ottenere una conversione piena e totale, una guarigione dal suo rifiuto di integrarsi nel Villaggio e dalla sua “asocialità”.

Per comprendere il senso della Serie è utile deviare brevemente sul contesto storico di riferimento. Siamo nel solco profondo della controcultura sessantottina, della reazione alla società capitalistica e straniante che si stava consolidando a seguito del boom economico. Un mondo sempre più globalizzato in cui l’individuo perde identità e diviene parte del tutto, numero inanimato di un elenco.

Il Villaggio allora da questo punto di vista non è altro che la riproduzione su piccola scala del distopico scenario che si apriva drammaticamente alla vista negli anni ’60. Preannuncio di un mondo nuovo in cui “i blocchi contrapposti” vengono ad annullarsi nella creazione di un modello globale.

È lo stesso Numero 2 a presentare il Villaggio come prodotto del superamento del bipolarismo da Guerra Fredda. La società che ci viene mostrata appare tragicamente attuale. A fronte di una democrazia di facciata (come appare compiutamente nell’episodio “Libertà per tutti”) le redini del Villaggio sono in realtà in mano al misterioso numero Uno che agisce per tramite dei suoi sottoposti, i numeri Due che si succedono negli episodi.

In questa società lo Stato-ombra totalizza ogni aspetto del quotidiano: dall’arte al tempo libero, tutto scruta l’occhio silenzioso del numero Uno. L’ascendenza orwelliana è fin troppo evidente. Ripetuti nel corso della Serie sono alcuni slogan espressione del bispensiero dei totalitarismi: “Le domande sono un peso per gli altri, le risposte una prigione per noi stessi”; “Una bocca cucita fa una vita felice”; “La musica inizia dove le parole finiscono”. Che riecheggiano da vicino i motti “La guerra è pace”, “La libertà è schiavitù”, “L’ignoranza è forza” del romanzo “1984”.

The Prisoner

Con uno sguardo straordinario proiettato al futuro The Prisoner anticipa anche un’altra deriva propria delle società moderne, quella tecnocratica.

Il “dominio della Tecnica”, l’ineluttabile “sviluppo” tecnologico che travalica ormai, come messo in luce dal filosofo Galimberti, l’uomo stesso e lo fa schiavo. La Tecnica che, oltrepassando il nostro sapere, non si fa più mezzo ma scopo. Il prigioniero si confronta con la Tecnica, la combatte: ad essa contrappone l’uomo, la sua intelligenza, il suo desiderio di affermarsi come persona. E ne risulta vincitore.

Ma The Prisoner non è soltanto questo. Anzi, è soprattutto altro. Al centro dell’indagine vi è l’uomo nella sua lotta personale, nelle sue difficoltà, nel suo percorso interiore che lo condurrà all’annichilimento o al raggiungimento di un’identità. “Tu sei solo un numero che deve essere tollerato e, se è necessario, uniformato al resto” afferma il Numero 2 nell’episodio “l’Asociale”.

È solo la società che ci impone questo annullamento? Nello stesso episodio McGoohan è accreditato alla regia come Josef Serf, uno dei vari pseudonimi che adotterà nei credits. Il riferimento è a Joseph Knecht (che in tedesco significa “schiavo”, in inglese “serf”), protagonista del romanzo Il giuoco delle perle di vetro di Hermann Hesse. Il protagonista riveste un ruolo di enorme prestigio nella regione utopistica di Castalia: ha il compito di proteggerne l’ortodossia. Eppure sente dentro di sé di essere soffocato da quel ruolo, abbandona tutto e va incontro agli uomini nella libertà del suo essere.

È questo allora il tema dominante di The Prisoner: l’uomo e la lotta con se stesso. Il tema del doppelgänger, dell’Io che si sdoppia ed entra in conflitto con sé, sarà elemento ricorrente tanto da occupare un intero episodio, “Il sosia”. E rappresenterà un precedente fondamentale per la sua messa in scena, a distanza di anni, in un’altra serie cult come Twin Peaks (un articolo illuminante sul simbolismo della Serie di Lynch lo trovate qui).

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E allora quei personaggi che il prigioniero incontra sul cammino, espressione ora della ribellione giovanile (il Numero 48), ora del desiderio di affermazione individualistica da parte di un membro dell’establishment (Leo McKern nel ruolo di Numero 2) non sono altro che rappresentazioni di fallimenti personali.

In questi individui McGoohan vede gli errori dell’uomo del suo tempo: la generica e violenta rivolta dei giovani sessantottini; della gioventù che rinnega la società solo perché se ne sente esclusa. “In questo succedersi di illusioni rivoluzionarie di un ceto borghese che poi rientra nei ranghi” una volta cooptato dall’establishment, come afferma lucidamente la filologa Silvia Ronchey. O di un membro realizzato di quella stessa classe dirigente che desidera, sì affermarsi, ma a livello di potere, non d’identità umana.

Il cammino seguito dal Prigioniero è invece quello di chi “si è ribellato, ha resistito, ha lottato, ha combattuto, ha mantenuto fede agli impegni assunti. Ha superato le coercizioni. Tutto per il diritto di essere persona, identità, individuo” (episodio 17, “Evasione”).

Il finale ci mostra la vera natura del Villaggio e dei suoi membri. Rivela il nemico che abbiamo sempre celato a noi stessi. Nella sua ferocia brutale e nel suo desiderio di dominio. Mostra l’orrore di scoprirci “altri”. La nostra incoerenza, le sfaccettature della nostra personalità. L’eterna lotta esistenziale.

Patrick McGoohan dopo The Prisoner seguirà altri percorsi, più o meno fortunati. Ma per tutti rimarrà sempre il Numero 6. Questa sarà la sua maledizione. Non riuscirà più a scrollarsi di dosso questa pesante identità, mostrandoci che, in fondo, alla lotta personale di affermazione, dovrà necessariamente seguire una lotta sociale. Quell’ultima sequenza con cui si chiude la Serie –e che non rivelerò– sarà profetica nella sua potenza immaginifica: la libertà è tensione inesauribile. E, forse, non pienamente raggiungibile.

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